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L’eredità culturale di Giacinto Auriti
(di Giuliano Rodelli e Salvatore Verde)

da: http://www.effedieffe.com/content/view/2162/179/


Ci riferiamo, ringraziandolo, all’intervista rilasciata da Marco Della Luna alla rivista «Italicum», pubblicata sul numero del settembre-ottobre 2007, in quanto ha favorito lo stabilizzarsi di una convergenza di interessi fra maturi allievi di Giacinto Auriti, che concordano sulla necessità che il suo «patrimonio» venga salvaguardato da possibili maldestri tentativi di aggiustamento.
Ci si era accorti da tempo del fatto che negli ambienti «auritiani» aleggiasse una sorta di fantasma che fosse alla ricerca di ipotesi, aperte a possibili utilizzi di quel patrimonio al fine di modellarlo opportunamente sui contorni di «esigenze» dettate dalla logica di un impiego «attuariale».
In certo senso così si realizzerebbe la temuta, grottesca «soggettivizzazione dello strumento» teorizzata da Auriti, dove lo strumento sarebbe costituito dall’ «utilizzo» medesimo nel momento in cui esso si lascia governare da logiche sue proprie e si disancora dalle teoriche olistiche «patrimoniali» d’appartenenza.

Il meccanismo, giova ricordarlo, fu perfettamente descritto da Julien Freund (1).
Fuor di metafora, si intende dire che il lascito di Auriti non è stato solo concettuale, ma è stato aumentato anche dagli stili di vita, dalle azioni personali di grande rilevanza e coraggio per le quali egli ha molto pagato e per ciò sono potute diventare esempi per noi.
Animate da quel suo profondo «credere», esse si offrivano all’imitazione dei discepoli ed erano adeguate ad illuminare gli incerti.
Quel lascito è ricco di ricerche e di approfondimenti, di invenzione di esiti - imprevedibili al tempo delle comuni riflessioni - specie se pensiamo a quelli relativi alla sociologia del diritto ed alla teoria generale del diritto.
Di particolare rilevanza era il «come» insegnava Auriti; spesso lo erano le sue intuizioni non scritte intrecciate fra i rapporti personali di carattere affettivo, a volte dettati dalla riconoscenza e molto ancora.
La consapevolezza del valore di un tale patrimonio ha imposto a coloro che ieri sono stati allievi e che oggi restano suoi amici grati, di vegliare su possibili distorsioni, minacciato com’è dalla eccessiva disinvoltura con cui da più parti lo si vorrebbe utilizzare.
Nella risposta resa da Della Luna all’intervistatore e precisamente al punto quattro, abbiamo rilevato alcune imprecisioni.
Auriti, si dice, sarebbe stato concettualmente inesatto e comunque avrebbe «sballato».
Ha ragione Della Luna: «Quando ci si mette a programmare riforme o si è concettualmente esatti o si sballa».

Tanta recisione impone, però, una dimostrazione che sia resa in forma così chiara da soddisfare le esigenze di ogni tipo di lettore; in questo modo non si rischia di recare ulteriore danno né a chi ha «sballato» né al lettore che, se poco attrezzato, vede aumentare a dismisura i suoi dubbi.
Poiché a volte la dimostrazione può non essere agevole da rendere o forse è stata solo intuita ma non razionalizzata, sta di fatto che di essa non ci sia traccia.
Dunque lo «sballo» resta da dimostrare.
D’altra parte, sarebbe stato facile esibire l’esattezza concettuale di cui è dotato il pensiero auritiano in materia di moneta se si fosse fatto riferimento a quanto egli ha scritto in proposito (2).
Il versante giudico del fenomeno monetario si è incaricato di mettere in chiaro l’entità dell’imbroglio economico realizzato dalla emissione dei biglietti di banca, specie da quando la comunità delle Banche Centrali di emissione è riuscita a cancellare il legame che all’origine legava l’emissione primaria al controvalore dei beni reali, all’epoca sintetizzato dalle caratteristiche peculiari tipiche dei metalli preziosi (oro, argento).
A mancare, purtroppo, non è stata solo la dimostrazione dello «sballo» ma anche il riferimento alle molte formulazioni che Auriti avrebbe preso da altri autori così come mancano i nomi dei pensatori canadesi di cui Auriti sarebbe stato tributario, nonché i riferimenti alle tesi che Auriti avrebbe acquisito dal Crèdit Social e da «altri autori».

Certamente, tra i pensatori che si occuparono di modifiche e riforme del sistema monetario il nome più noto, anche per il suo impegno politico, é quello del colonnello C.H. Douglas per la sua teoria detta del «Credit Social».
Occorre dire, però, che essa si articola in una complicata serie di iniziative che sono realizzabili solo in un sistema politico il cui impianto presupponga un macchinoso sistema di» amministrazione» capace di tenere imbrigliata la circolazione monetaria.
Ne aveva accennato Gertrude M. Coogan (3).
In realtà Auriti non prende nulla da Douglas, eccettuato che per la parte critica, come talvolta gli accadeva di fare anche per singoli autori appartenenti a scuole diverse.
Era proprio la macchinosità di quel sistema ad indurlo a non immaginarlo come possibile modello.

Chi conosceva Auriti sa bene quanto egli, uomo dotato di spiccata intelligenza pratica, avesse caratterialmente in orrore la impossibilità della riduzione ad elementi essenziali dei concetti complessi; la ragione sta nel fatto che una tale impossibilità ritarda la eventuale realizzazione pratica.
Infine, non riusciamo a trovare traccia di quali siano le conoscenze che egli avrebbe importato dall’estero né quali sarebbero state prese da altri studiosi.
Al contrario, ma proprio del tutto al contrario, le nostre modeste conoscenze ci suggeriscono di avere certezza del fatto che il pensiero di Auriti sul tema possa considerarsi quasi del tutto originale. Egli infatti non riprese pressoché nulla dai tanti riformatori che in tutto il mondo e specialmente negli Stati Uniti d’America proposero modifiche anche radicali (pensiamo a Frederick Soddy, Thorstein Veblen, Abraham Lincoln, Thomas W. Huskinson, Artur Kitson, T.Cushing Daniel, Silas Walter Adams, Francesco Avigliano), perché si rese conto di quanto fossero di difficile applicazione o di esito dubbio; ciò non vuol dire che essi non contengano analisi valide o riflessioni serie da utilizzare come suggerimenti utili all’arricchimento delle proprie tesi per materie circoscritte.
Del resto, è sufficiente leggere il notevole saggio di Gertrude M. Coogan (4) per rendersene conto.

Per tornare al tema, desideriamo far punto su una considerazione: i titoli di Stato scambiati contro moneta appena emessa, configurerebbe un’operazione di sconto: in altri termini la Banca d’Italia cederebbe allo Stato la moneta appena stampata a titolo di mutuo perfezionando un’operazione di credito e la cederebbe in pagamento e dunque pro soluto allo Stato.
A sua volta lo Stato cederebbe alla Banca d’Italia la titolarità di titoli di Stato a scopo di garanzia (dunque non in pagamento) pro solvendo (salvo buon fine).
Abbiamo dunque due posizioni giuridiche ben definite, in cui quella della Banca d’Italia risulta di gran lunga la più forte nel senso che essa verrebbe comunque pagata: o dallo Stato o dagli
acquirenti dei titoli di Stato cedutile a garanzia. Non così per lo Stato che resta nella posizione giuridica del mutuatario.
Come se non bastasse, secondo Della Luna, Auriti avrebbe «seriamente» errato quando avrebbe preteso l’accreditamento della moneta al popolo.
Come Della Luna abbia potuto concedersi il dubbio circa il fatto che Auriti abbia potuto sovrapporre i concetti di «accreditamento» e di «proprietà», resta un mistero per uomini giudiziosi. Comunque sia, non possiamo che riaffermare che Auriti non poteva non sapere, e bene, che accredito e proprietà erano realtà differenti e questo lo sosteneva di continuo nelle lezioni oltre che negli scritti (5).
Ma del tutto in via preliminare occorre dire che quando Auriti sollecita l’accreditamento al popolo della moneta, pensa ad una antica questione che egli risolveva appunto con l’accredito al popolo della parte del reddito dei capitali produttivi amministrati dallo Stato (era il caso allora delle Partecipazioni statati) (6).

Nel caso della moneta, si danno due ipotesi:
1) se si pensa che la massa monetaria circolante possa costituire capitale amministrato dallo Stato tale da produrre reddito, questo allora andrebbe ripartito, mediante accredito, fra i cittadini a titolo di reddito di cittadinanza, versione moderna della  greca.
In questo caso si aprirebbe la questione del suo appostamento in bilancio e andrebbe definita l'individuazione della voce di bilancio specifica.
2) Se invece si dovesse intendere che la Banca d’Italia sia la proprietaria della moneta di nuova emissione (e ciò consegue sia nel caso in cui Banca d’Italia acquisti i Titoli di Stato sia nel caso che li iscriva a titolo di garanzia (pegno) in vista della restituzione dei biglietti di banca prestati [e, prestati, tanto da necessitare di una garanzia tipica per i beni mobili]) allora il valore facciale della moneta, opportunamente depurato, andrebbe appostato fuori del bilancio, al pari delle partite di
giro, stante la garanzia ultima costituita dalla massa dei depositi dei cittadini.
In bilancio andrebbero collocati solo i crediti ed i debiti relativi alla trasformazione della carta filigranata in carta-moneta.
Per intenderci, l’accreditamento, così come lo aveva inteso Auriti, indica lo strumento mediante il quale può essere soddisfatta la pretesa riveniente dalla titolarità di una posizione giuridica in testa all’accreditando e dunque, implicitamente, la sua pari facoltà di pretendere il riconoscimento dell’arricchimento prodotto dalla circolazione monetaria.

Diremo che il popolo deve potersi vedere riconosciuto un diritto di credito nei confronti della Banca d’Italia anche e soprattutto perché è, sotto il profilo sostanziale, «nudo» proprietario.
E’, inoltre, del tutto errato sostenere, come fa l’autore, che «le proprietà si intestano e non si
accreditano» (espressione in sé poco felice) specie se lascia passare l’immagine che l’ «intestazione» sia lo strumento ordinario mediante il quale è possibile acquisire quel particolare diritto reale.
In realtà accade che il nostro codice civile prevede solo pochissimi casi di «intestazione» della proprietà fra cui i più noti sono i negozi fiduciari e le donazioni indirette.
In realtà le proprietà si acquisiscono cosi come avviene per tutti i diritti.
Nel prosieguo dell’intervista viene detto in forma che troviamo molto equivoca «… indico l’origine di quella erronea tesi nella terminologia contabile della partita doppia… questa mancanza terminologica induce la gente a pensare… Dimentica che esistono attivi patrimoniali… E dimentica che le proprietà possono essere acquisite gratis… Queste dimenticanze portano a conseguenze insostenibili…».
Poiché non è ben chiaro chi sia il soggetto dell’azione del dimenticare: se «quella erronea tesi» oppure un ipotetico Giacinto Auriti, che da giurista sarebbe autorizzato a ignorare la partita doppia.

Occorre dire subito che non vi è alcuna dimenticanza e molta più chiarezza avrebbe certamente gratificato prima di tutto Della Luna.
Ma andiamo con ordine.
Ci sarebbe da chiedersi, in via di principio, perché mai la contabilità a partita doppia dovrebbe annoverare oltre ai crediti ed ai debiti anche i modi di acquisto del diritto di proprietà appartenente, naturaliter, al dominio del diritto.
Pur tuttavia, nel caso in cui si volesse ipotizzasse che l’acquisto della proprietà della moneta da parte della Banca d’Italia si realizzerebbe «a titolo originario», resta comunque da respingere l’ipotesi avanzata da Della Luna per via del fatto che tali acquisti sono in realtà previsti e realizzati nella pratica contabile.
Infatti che le acquisizioni a titolo originario non siano frutto di «errore di impostazione» scaturito dalla «inadeguatezza della terminologia contabile», è provato dal fatto che la partita doppia - e quindi il bilancio - non ignorano (né lo potrebbero, dovendo essere - come vuole la legge - la fotografìa della realtà patrimoniale dell’impresa) le acquisizioni a titolo originario (si intendono per tali quegli acquisti ottenuti in forma diversa dal trasferimento che avviene fra soggetti diversi).
Esse, infatti, quando si presentano, vengono regolarmente registrate nell’attivo dell’idoneo conto patrimoniale.
Si pensi ad esempio al conto «Immobili» per il caso di un bene usucapito o, al conto «Cassa», ove si trattasse di una somma di denaro.
In ambito contabile è ben noto il conto ad hoc denominato «sopravvenienze attive» (e, se si vuole, anche gli storni dal conto «sopravvenienze passive»).

Ora, se chi emette moneta di base, cioè nel nostro caso l’Istituto Centrale di Emissione, registra il suo impegno sotto la forma legale del debito (e ciò comporta la sua registrazione nel passivo patrimoniale del bilancio alla voce «Circolazione»), bisognerà che vi sia altrove un pari valore iscritto a credito di qualcuno.
Occorre intendersi: quando lo Stato apposta la partita «a credito» si deve intendere che questi dovrà accreditare (ad altri,cioè, in futuro la Banca d’Italia): nel nostro caso si tratta di una contropartita in Titoli di Stato: è per ottenere questo arricchimento che Banca d’Italia avrà in precedenza iscritto a debito la cartamoneta ceduta al Tesoro.

Riprendendo il discorso, diremo che il pari valore iscritto a credito evidentemente sarà a carico di chi per la prima volta riceve il «circolante».
Si pensi, ad esempio, ad un primo scambio, accettato per convenzione consolidata, ed effettuato fra cittadini che cedono merce o servizi contro cartamoneta.
Nel nostro caso, il primo prenditore potrebbe essere lo Stato o una banca del sistema; questa lo registrerà con la seguente scrittura contabile: Cassa a Istituto Centrale di emissione; se lo riceverà lo Stato, questo provvederà con la propria contabilità a registrare l’operazione nello stesso (o analogo) modo.
Quindi per lo Stato, all’origine della disponibilità del nuovo circolante vi sarà una iscrizione a debito (= debito nel senso che sono dovuti a Banca d’Italia) nel bilancio di Banca d’Italia.
Dove sarebbe dunque l’errore quando si afferma che la moneta nasce dal debito?
Certo, potranno essere seguite altre scritture contabili con cui lo Stato potrebbe indebitarsi emettendo titoli, ma un’operazione del genere nulla muterebbe nella sostanza dell’indebitamento. Esso, fino a quando era ancora aperto il conto corrente del Tesoro, assumeva la forma dello «scoperto»; mentre da quando il ministero ha avuto facoltà di emettere titoli, l’indebitamento consiste nell’ammontare del valore facciale portato dai medesimi.

E’ certamente vero che lo Stato o una delle banche del sistema che si riforniscono di denaro liquido presso Bankitalia diventano intestatari del circolante ricevuto e considerati «debitori».
Se è stato lo Stato a rifornirsi, la Banca d’Italia gli chiederà a copertura, il controvalore in titoli di Stato mentre, se la richiesta è venuta da una banca del sistema, verrà incrementata la voce del suo bilancio «debito verso Bankitalia».
Che cosa mancherebbe, a giudizio di Della Luna, perché possa affermarsi che la moneta nasce dal debito?
E’ vero che la Banca Centrale che emette moneta ne diventa proprietaria - sul punto concorda Della Luna - ma proprio perché ciò accade in assenza di un titolo legittimante - che non sia la prassi antica - si realizza uno spostamento di posizioni giuridiche accompagnato da un mutamento della natura dell’operazione: mentre alcuno diventa proprietario, per questo solo fatto, sottrae alla società il ben concreto potere d’acquisto, e simultaneamente pone in essere un furto che non dovrebbe poter essere sanato nè da una prassi, per secolare che sia, nè da uno statuto bancario anche se regolarmente approvato dallo Stato.
Resta infatti incontrovertibile il fatto che l’usurpazione di sovranità perpetrata ai danni dello Stato nella forma dell’abbandono del suo potere di battere moneta che, per definizione, non dovrebbe essere nè delegabile né cedibile, attiene al piano pre-giuridico che è quello della decisione politica (potremmo dire lo stato di eccezione primario) previsto da Schmitt.

Allo stesso modo resta intoccato il fatto che il vantaggio per la Banca emittente si realizzi in un assoluto gratis et amore Dei, cioè senza che essa dia nulla in cambio.
Che le tesi auritiane non essendo dogmatiche, possano naturalmente essere criticate o respinte, è questione ovvia.
Ma riteniamo che sia legittimo e, per noi, doveroso, esigere nei confronti di chicchessia che la critica od il respingimento vengano portati utilizzando argomenti validi e di lampante chiarezza, astenendosi il più possibile dall’andare alla ricerca di radici metaeconomiche che sono note fin dal XVIII secolo, cioè fin da quando per la prima volta la Bank of England chiese (ed, ahinoi, ottenne) di poter stampare carta moneta contro pagamento di un modesto tributo.
Infine, la riforma che ha in mente l’autore sembra prevedere uno Stato che sia proprietario della moneta che creerebbe.
Una conclusione di tal genere corona adeguatamente la serie di sommarietà (e di inopportune irriverenze) nei confronti di un uomo quale è stato Giacinto Auriti.
La sensazione che se ne ricava è che i pur brevi testi di Auriti non siano stati letti e, qualora lo fossero stati, sembra che siano stati interpretati in forma incoerente ed in contrasto con l’intero impianto ideologico auritiano ed, inoltre, che i non meglio precisati «auritiani», che dovrebbero produrre con l’autore la progettata riforma, possano attribuirsi «ascendenze» intellettuali credibili ma non legittime.

Non si intende qui fare professione di primogenitura ma di verificare attentamente che la «paternità» intellettuale sia realmente quella di Giacinto Auriti.
Si intende inoltre ricordare che Giacinto Auriti ha in prima persona avviato le azioni contro gli Istituti di Emissione; ha indotto il ministro competente a rendere dichiarazioni ufficiali; ha interloquito con gli ambienti dirigenziali dei sindacati oltre a molto altro; per questo ha scontato pesantemente e direttamente le conseguenze della propria «vita activa», ha pagato di persona e molto duramente per effetti che aveva previsto.
Desideriamo ricordare questo aspetto del carattere di Auriti perché abbiamo notato l’esistenza nel volume Euroschiavi di moduli elaborati dall’autore e messi a disposizione di quanti decidessero di avviare eventuali azioni giudiziarie contro istituzioni pubbliche.
Non abbiamo notizia del fatto che Della Luna ne abbia avviata alcuna.
Salvatore Verde
Giuliano Rodelli

1) Julien Freund, «Il terzo, il nemico, il conflitto», Giuffré, 1995.
2) Giacinto Auriti, «L’Ordinamento internazionale del sistema monetario», Ed. Provv., 1993,
pagine 79-88.
3) Gertrude M. Coogan, «Money Creators», Omni Pubblications, Hawthorne, California, 1982,
(traduzione Italiana: «I creatori di moneta», AR, 1998.
4) Gertrude M. Coogan, opera citata, pagina 16.
5) Giacinto Auriti, «Il diritto di proprietà nello Stato Socialista», Edizioni del Centro di Studi
Politici e Costituzionali, s.d.
6) Giacinto Auriti, «La proprietà di popolo», Edizioni del Centro di Studi Politici e Costituzionali, 1976, pagina 10 e seguenti.

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