Leggi economiche, etica e paradossi C'è via d'uscita? (di Silvano Borruso) |
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Sommario Perché l’economia venga considerata come scienza sociale, una sua analisi deve cominciare con la verità delle cose, per continuare con la virtù della giustizia, e finire con mettere, ciascuno al suo posto, gli approcci a questa scienza degli ultimi 200 anni: liberale, marxista, austriaco, ecclesiale e georgista-geselliano. Il ragionamento che segue fa perno sulle questioni fondiaria e monetaria, che l’economia moderna si ostina ad ignorare. Il disordine rampante nel quale ci si dibatte non può che esserne l’inevitabile conseguenza. Lo Stato moderno ha perduto l’indipendenza, finanziaria e politica, a vantaggio di interessi creati che sono riusciti a tenere segrete ambedue le questioni. Le soluzioni convenzionali dei vari problemi economici sono immancabilmente difettose per la stessa ragione. Due uomini, nessuno dei quali era economista di professione, affrontarono quei problemi e li risolsero: Henry George (1839-97) e Silvio Gesell (1862-1930). Le loro soluzioni: Terra e Moneta Franca, capaci di metter fine alla terratenenza e all’usura, e con esse a una oppressione multisecolare. Non vi è dubbio che gli oppressori continueranno ad opporre resistenze ad oltranza a codeste soluzioni. Introduzione Dopo il licenziamento dalla Banca Mondiale nel 1999 per averne denunciato le politiche, Joe Stiglitz, ex economista-capo di quella venerabile istituzione, ricevette il Premio Nobel per l’economia[1] nel 2001. La motivazione? Per aver spiegato come funzionano i “mercati asimmetrici”, mercati cioè dove operano personaggi che la sanno più lunga di altri. Se fosse esistito il Premio Nobel ai tempi di Esopo, la volpe che fece parlare il corvo per rubargli il cacio che portava in becco ne sarebbe stata un candidato di prima classe. L’uomo e il Premio sono emblematici del disordine economico che si spande senza sosta dai tempi di The Wealth of Nations. Gli ultimi 200 anni sono stati testimoni di quello che potrebbe esser chiamato “paradosso Stiglitz”: da un lato cattedre di economia, professori di ruolo, prestigiosissimi libri di testo, riviste di grande erudizione, e migliaia di tesi di dottorato (pubblicate o no) per finire con il Nobel (dal 1969); dall’altro, l’economia del mondo reale, sofferta in carne viva da folle sconfinate di uomini, donne e bambini. Qui la povertà regna accanto all’opulenza; la disoccupazione mostra la sua brutta faccia accanto al fabbisogno di manodopera; il divario tra ricchi e poveri aumenta di giorno in giorno; e il flagello della guerra e del terrorismo va a braccetto di una costante diminuzione delle libertà personali ad opera di uno Stato che indebitamente e oppressivamente si intrufola negli affari personali e domestici. Aggiungiamo che gli economisti che osano fare “previsioni” si vedono smentiti senza fallo dai fatti, e che né università né dipartimenti governativi osano licenziarli come farebbero se si trattasse, diciamo, di ingegneri o di ragionieri. Eccovi alcuni esempi:
I pronostici economici sono pericolosi quando vengono pubblicati e creduti – ma ancora più pericolosi quando non vengono pubblicati ma creduti lo stesso.[3] Il problema vero è che l’operazione è disonesta; gli economisti non hanno gli strumenti per predire gli effetti di una riduzione fiscale di 35 miliardi su un’economia di sette mila miliardi.[4] Pagina dopo pagina, i periodici economici sfoggiano formule matematiche che portano il lettore da una congerie di presupposti più o meno plausibili a conclusioni articolate con precisione ma del tutto irrilevanti.[5] Ordine Economico Naturale Nei suoi termini minimi, un ordine economico naturale esiste dove chi lavora mangia, e chi non lavora o si arrangia per farsi portare il cibo dalle cornacchie[6] o fa la fame. Un ordine economico naturale fa perno sui cardini della produzione e distribuzione di ricchezza.
Si cominci col notare che mentre le leggi di produzione di ricchezza sono necessariamente leggi fisiche, quelle di distribuzione sono necessariamente morali, cioè sempre conseguenze di decisioni umane libere e responsabili (o irresponsabili secondo i casi). L’indagine economica finisce con il verificare dove va a finire la ricchezza prodotta. I fattori di produzione: terra e lavoro (con o senza) capitale agiscono ora come ricettacoli di distribuzione. Ma guarda caso a questi si aggiunge il denaro, che non era presente tra i fattori di produzione. Come ciò avvenga verrà trattato nella sezione sulla Questione Monetaria. Un ordine economico naturale dovrebbe quadrare con
Anche una rapida occhiata ai cinque punti di cui sopra mostra che oggi non esiste “ordine” economico di cui valga la pena parlare, non diciamo poi “naturale”. Esiste invece un disordine di proporzioni colossali, alla cui radice sta l’abdicazione della sovranità statale: della terra, lasciata ai terratenenti, e della moneta, lasciata all’alta finanza. Parecchi si illudono ancora che Banca Centrale e governo la facciano da placidi buoi che tirano del carro dell’economia, con il popolo che fa da cocchiere, gentilmente pungolando le due bestie perché tirino il carro nella direzione giusta. In realtà è il popolo a fare la bestia da soma. La Banca Centrale è il cocchiere e il Governo la frusta, con la quale lo Stato “governa” (se è la parola giusta) la bestia per mezzo di politiche, specialmente fiscali, non sempre confessabili.[11] Le banche commerciali la fanno da mosche cavalline che pungono il bue-popolo nelle parti tenere. Il resto del saggio verrà dedicato a provare codesta tesi. La questione fondiaria Diamo la parola ad Adam Smith (1723-90), padre dell’economia moderna.
Da buon pragmatista britannico, Smith si ferma alla costatazione del fatto. Dà per scontato che “chi ama mietere dove non ha seminato” abbia tutti i diritti a massimizzare la rendita: o abbassando i salari dei dipendenti, o aumentando il canone degli affittuari della proprietà, o ambedue le cose quando la proprietà è grande abbastanza da permetterlo. Da ragazzo ebbi il privilegio (lo capii solo decenni dopo) di conoscere Don Cola Tampuso, un attempato contadino di Grotte (AG) che chissà come era andato a finire in quel di Cefalù (PA), dove coltivava un piccolo podere in regime di mezzadria insieme all’anziana moglie. Nonostante che il 50% dei frutti del suo lavoro andassero a finire nelle tasche di uno che “amava mietere dove non aveva seminato”, Don Cola poteva sbarcare il lunario, dato che il podere distava da Cefalù non più di due chilometri. Ne fosse stato distante dieci o più, gli intermediari gli avrebbero portato via quasi tutto il resto, lasciandogli solo il giusto per sopravvivere. Il lettore avrà riconosciuto la “legge di ferro” di David Ricardo (1772-1823). Cerchiamo ora di capire cosa succede quando “la superficie territoriale di un dato paese diventa proprietà privata”. Chiunque sia in grado di recintare un pezzo di terreno e chiamarlo suo, rivendica sovranità su di esso, ma solo se è in grado di difenderlo con la forza. In regime di recintazione, quindi, sorgono due sovranità: quella del governo, che la sbandiera con vessilli, uniformi, inno nazionale, tassazione e orpelli vari, e quella dei terratenenti, che si guardano bene dallo sbandierare alcunchè, però la esercitano di fatto, come la esercitava il padrone del podere di Don Cola. Il quale, come tutti gli emarginati, faceva il proletario, o se si vuole il nullatenente. Campava, circostanze permettendo. Ora è chiaro che una stessa superficie terriera non può avere due sovrani: il più forte caccerà via il più debole. Questi i termini (fondiari; quelli monetari verranno appresso) della Questione Sociale, della quale si può leggere in Tito Livio per poi vederla fare da sfondo a qualsiasi libro di storia di qualsiasi luogo e periodo. Quanto meno l’autore ne percepisce l’importanza come causa determinante di guerre, trattati, matrimoni dinastici, colonialismo, elezioni papali, rivoluzioni, esecuzioni capitali e chi più ne ha più ne metta, tanto più costui rivelerà al lettore attento, e solo a lui, i drammi per non dire le tragedie della sperequazione fondiaria. Quattro ne sono le conseguenze.
Il terratenente, sovrano di fatto, esercita sovranità sottraendo una risorsa naturale (la terra) dall’uso comune e tassando chi ne ha bisogno per lavorare. Dato che chiunque lavora, giù fino al bancarellaio di città, ha bisogno di un minimo di terreno sotto i piedi, costui pagherà un canone d’affitto al proprietario del titolo di proprietà per l’uso dell’appezzamento per quanto minimo. Può non farlo andando ad occupare terra libera, ma la distanza dal mercato aggiungerà ai suoi costi tutto o più di quel che risparmierebbe facendolo. L’imposizione fiscale del terratenente, cioè l’aumento del canone degli affittuari e la diminuzione dei salari di chi lavora per lui, gli permette di monetizzare come rendita tutti i vantaggi del tratto sociale. Ad ogni miglioramento di infrastrutture, di amenità pubbliche, di tecnologia, ecc. che induca gli agricoltori a starsene a casa invece di andarsene, il terratenente o aumenta il canone agli affittuari o deprime i salari dei suoi lavoratori, o ambedue le cose quando la proprietà è abbastanza grande da permetterlo. La storia della questione fondiaria è lunga. I patrizi e i plebei di Tito Livio lottarono per secoli proprio attorno alle due grandi questioni di questo saggio: terra e moneta. Ad ogni minaccia di rivolta plebea, i patrizi invariabilmente se la arrangiavano per distrarne l’attenzione verso un’invasione nemica, frequentemente provocandola.[13] Nella storia ecclesiastica la stessa questione incombe massiccia, dalla donazione di Pepino di Heristal (756) alla scomparsa degli Stati Pontifici (1870).[14] L’origine dello Stato moderno, databile con la sfortunata decisione presa al Concilio di Costanza (1415) di dividere i Padri per nazionalità, promosse una sovranità basata sulla terratenenza politica, ma ben presto codesta sovranità venne usurpata da privati, a cominciare da quando Enrico VIII d’Inghilterra commise l’imprudenza di vendere ai nobili le proprietà ecclesiastiche confiscate nel 1541. Costoro pagarono, ma pretesero i titoli di proprietà che tutt’ora mantengono.[15] La questione fondiaria è alla base della tensione mai risolta tra sovrano[16], nobiltà e plebe, nonchè di fenomeni come la “sovrapopolazione”, la criminalità organizzata e la guerra come valvola di scarico della lotta di classe. La cosiddetta “sovrapopolazione” è effetto diretto, a volte drammaticamente istantaneo, dell’espulsione dei piccoli usufruttuarî terrieri a vantaggio dei grandi terratenenti. Lo si vide con la trasformazione degli yeomen inglesi, tra il 16° e il 19° secolo, in straccioni che si affollavano nelle città durante la Rivoluzione industriale; con l’emigrazione degli extremeños che andavano a ripetere l’usurpazione fondiaria in America dopo averla subita in Spagna; con quei ragazzi che Don Bosco raccoglieva per le strade di Torino, e con la massiccia emigrazione della popolazione duosiciliana a cavallo tra il 19° e 20° secolo, buttati fuori dalle loro terre ancestrali dalla nuova politica fondiaria sabauda. Già, perché cosa fare con l’improvviso straripare di proletari, proletarie e proletarietti di ambo i sessi? Non c’è che l’imbarazzo della scelta: dalla scherzosa “modest proposal” di Jonathan Swift (1667-1745) cioè servire i loro neonati come manicaretto prelibato alle tavole dei ricchi; a quella di Malthus (1766-1834) che ancora viene presa sul serio, di convincerli ad avere meno figli; al Terrore, il cui vero scopo era una drastica riduzione della popolazione francese[17]; all’emigrazione come quella irlandese, volontaria verso l’America o forzata verso l’Australia (anche per il furto di un fazzoletto), alla coscrizione di centinaia di migliaia di disoccupati come carne da cannone, o alla facile incarcerazione (gli U.S.A. ne hanno 3 milioni, circa l’1% della popolazione). E via dicendo. Da nessuno degli argomenti anteriori segue che la proprietà fondiaria sia immorale di per sé. Terratenenti consci della funzione sociale della loro proprietà sono sempre esistiti, anche se non in gran numero.[18] Però offrire l’opportunità di vivere sul lavoro altrui da un lato e dall’altro domandare di non farne uso è chiedere un po’ troppo. La Questione Monetaria Dice Erodoto che fu Creso di Lidia (m. 546 a.C.) ad inventare la moneta, imprimendo il sigillo reale su di un pezzo di metallo prezioso (se per garantirne il peso o per arricchirsi con il signoraggio Erodoto non lo dice).[19] Due cose scapparono al buon Creso:
Licurgo di Sparta aveva capito che un’unità di valore che è valore al medesimo tempo crea una contraddizione insalvabile: spendere, o risparmiare, sono un aut aut senza mezzi termini. A una moneta a doppio taglio così, segue inevitabile una plutocrazia che impone un tributo a chiunque ha bisogno di mezzo di scambio, a favore di chi ha incettato la materia prima da monetizzare. Per cui Licurgo bandí l’oro come materiale coniabile, sostituendolo con ferro, per di più corroso artificialmente. Così facendo si guadagnò le lodi di Pitagora e gli scherni, quando non gli insulti, dei patiti del metallo giallo.[22] Non mi è dato sapere se Creso avesse mai sentito parlare di Licurgo. Sia come sia, quell’accoppiamento contraddittorio fa da causa base dell’usura, che non è altro che il tributo che chi usa moneta come mezzo di scambio deve pagare a chi la usa principalmente come portavalori. L’usura non ha nulla a che vedere con le sciocchezze appioppatele lungo i secoli, come “fecondità”, “produttività”, “utile”, “lucro cessante”, “denaro che lavora”, “interesse eccessivo”, e “sfruttamento”. L’usura è potere, a cui seguono sopraffazione, crisi economiche e politiche, economia di guerra, rivoluzioni, lotte di classe, povertà nel bel mezzo dell’abbondanza, e la Questione Sociale. Le due grandi questioni terra-moneta sono come le due ali di un infernale uccello di malaugurio, del quale è da sperare il decesso in questo entrante 21o secolo. La questione monetaria rimane irrisolta. Lungo i secoli i governi, fino a quando il potere di batter moneta non fu usurpato loro dall’alta finanza,[23] emettevano denaro inteso come mezzo di scambio, ma mai e poi mai sono riusciti ad impedire a risparmiatori e usurai (che per lo scopo di questo saggio sono la stessa cosa) di sottrarre denaro dalla circolazione per interessi privati. Per cui la scarsezza di moneta, rampante ancora oggi, rimane causa primaria (anche se non esclusiva) del disordine economico che affligge tante nazioni, specialmente quelle dei paesi poveri. La scarsezza del mezzo di scambio favorì l’istituzione del credito. Tra i primi a rendersi conto che il credito poteva benissimo sostituire il costosissimo (e pericolosissimo) trasferimento di contante metallico furono i Templari. Già alla loro espulsione da Terrasanta nel 1291 costoro avevano stabilito una rete di credito con quartier generale a Parigi. Naturalmente non confidarono a nessuno che non vi era oro alcuno “dietro” ai loro pezzi di carta, e ciò fu la loro rovina. Filippo il Bello, in combutta con il primo papa avignonese Clemente V, distrusse l’Ordine e ne saccheggiò il quartier generale e le comanderie, nella vana speranza di trovarvi un tesoro fantasma.[24] La superstizione di Re Filippo (e di Creso) è viva e vegeta nelle menti dei più,[25] grazie agli interessi degli usurai, all’ignoranza (genuina?) di squadroni di economisti, e al silenzio (complice o no, non spetta a me giudicare) delle facoltà di istituzioni che usurpano il nome di “università”. I più chiamano “denaro” tanto la moneta quanto il credito, confondendoli permanentemente. È vero che a parità di condizioni si comprano le stesse cose tanto con un biglietto da €100 ($, £, ¥ o quel che sia) quanto con un assegno dello stesso importo. Pochi però riflettono sul fatto che l’assegno altro non è che uno strumento di credito: non fa che trasferire informazioni da un conto bancario ad un altro, una sola volta. Il biglietto da €100, d’altro canto, trasferisce beni e servizi per €100 ogni volta che cambia di mano. Nel caso ipotetico, ma non impossibile, che quel biglietto venga scambiato tre volte al giorno per un anno, lo stesso pezzo di carta farebbe muovere beni e servizi per più di €100.000. Questo è il significato di liquidità, posseduto dal contante ma non dal credito.[26] Ma ciò non è mai accaduto. Questa mancanza la si è pagata, letteralmente, con fiumi di sangue. La situazione odierna non può che venir profilata sommariamente. I soliti più (le masse) continuano ad illudersi che sia lo Stato ad emettere moneta. Per gli spiccioli ciò è vero. Su questi lo Stato incamera un signoraggio irrisorio, per il quale non vale la pena battersi come fanno tanti entusiasti che lo reclamano “per il popolo”. L’emissione di moneta cartacea, invece, fu usurpata dal sistema bancario subito dopo Waterloo (1815). I plenipotenziari pluridecorati e pluripiumati del congresso di Vienna erano tutti rappresentanti di governi indebitati con le banche fin sopra i capelli. Era solo questione di tempo prima che i vari Stati cedessero la sovranità monetaria al potere finanziario. Oggi in Europa il signoraggio sull’emissione di moneta cartacea lo incamera la Banca Centrale Europea di Bruxelles. Ma il suo ammontare arriva a malapena al 5% di tutta l’emissione monetaria. Neanche per questo vale la pena di battersi molto. La vera frode è l’emissione monetaria sotto forma di credito da parte delle banche commerciali. L’inganno non è tanto che su una scarna base di contante esse emettano credito per 10-12 volte di più (la cosiddetta riserva frazionaria), ma che chiamino “prestito” quello che è una vera e propria emissione di denaro sotto forma di creazione di credito (non contante). L’emittente materiale è il firmatario dell’assegno al momento di farne passare l’informazione al conto del ricevente. Confondendolo con un prestito, il firmatario si impegna a restituire un capitale fittizio[27] e a pagarne l’interesse convenuto. Una seconda frode, ancora più grossa, è il debito pubblico: la Banca Centrale crea denaro dal nulla e lo “presta” allo Stato, pretendendo il pagamento di interesse (non di capitale, che estinguerebbe il debito) tassando chi lavora. Che nessuno si chieda: “ma perché deve far ciò la Banca Centrale? Non può farlo lo Stato, con moneta libera da debito?”[28] si deve agli imbrogli di Adam Smith e discepoli, che sono riusciti ad offuscare la vista di sette generazioni di imbrogliati. Pochi sanno, e molti benpensanti si scandalizzeranno a leggere, che l’istituzione chiamata Banca Centrale è il punto programmatico n.5 del Manifesto Comunista del 1848. “Il capoccia delle teste confuse”, come lo chiamava Henry George, propone, nel suo Manifesto,
Da allora, l’istituzione si è andata spargendo per il mondo a macchia d’olio.[29] Le banche centrali emettono moneta secondo i dettami della Banca Mondiale. La sua politica odierna è di permettere al cosiddetto “Gruppo dei 12” di avere una relativa abbondanza di contante, e al resto del mondo (eccetto quei paesi che osano sfidare codeste politiche) di arrangiarsi come può prendendo denaro “a prestito” dai mal chiamati “donatori”. Ciò significa che le banche centrali dei paesi poveri emettono il contante giusto per bilanciare le quantità di dollari “presi a prestito”. Il fondamento logico di una tale politica non è mai stato spiegato. I suoi effetti li spiega Hernando De Soto in The Mystery of Capital: il patrimonio nelle mani dei poveri di tutto il mondo ammonta, secondo i suoi calcoli, a 9,3 mila miliardi di dollari. Ma codesto capitale è come un motore ingrippato per mancanza di lubrificante. Questa mancanza di contante mantiene i paesi poveri in uno stato di deflazione permanente, con tutti i problemi sociali che ne seguono.[30] Le banche commerciali riempiono il vuoto, ma non emettendo contante; esse emettono credito, come già spiegato, e lo emettono solo agli “accreditati”, cioè a pochi eletti (leggi: già ricchi). Che naturalmente si arricchiscono ancor più, e non proprio per “interventi governativi”. Oltre al credito, le banche creano confusione, grazie alla quale prosperano. È nel loro interesse rifilare due storielle con le quali ingannano il pubblico da 400 anni:[31]
Nessuna delle due proposizioni è vera, ma ambedue sono efficacissime a far continuare la confusione denaro = credito/moneta nelle menti dei più. La differenza tra credito e moneta è qualitativa, non quantitativa; ma la mente “moderna”, abituata a stimare quantità e a disprezzare qualità, trova difficile percepirne la differenza. Un paradosso che ne segue è che i cosiddetti “cattivi” prestiti possono esser cattivi per le banche, ma non per l’economia, nella quale rimane il credito emesso senza danni per nessuno; e un altro è che i furti di contante dagli stabilimenti bancari, a mano armata o no, per quanto dannosi per chi può rimetterci la pelle, iniettano contante nell’economia, allontanandone la deflazione. L’emissione di credito e la manipolazione dello stesso su grande scala hanno creato dal nulla una bolla di sapone finanziaria di proporzioni mostruose, che Bernard Lietaer[33] chiama “casinò globale” e che non ha se non tenuissime relazioni con l’economia reale di produzione e di scambio. Nel 2001 codesta bolla aveva raggiunto la cifra di 98 mila miliardi di dollari. Tre anni dopo era salita a 140 mila miliardi. Dato che l’economia mondiale (di produzione e scambio) ha bisogno di non più di tre mila miliardi, non è difficile immaginare cosa succederebbe se codesta domanda da incubo si riversasse un bel giorno sul mercato della produzione-consumo. I governi, com’è logico, hanno tentato di impadronirsi di parte di questo “denaro”. Ma la loro impotenza è venuta a galla con la loro assoluta incapacità di imporre la modestissima imposta Tobin dello 0,2 – 0,5% alle migliaia di miliardi che passano i confini giornalmente. La scuola economica austriaca si ostina a considerare la moneta metallica come superiore a quella cartacea. I suoi “esperti” non sembrano capire che il vero problema è la contraddizione mezzo di scambio/portavalori, che persiste in ambedue i sistemi. Il fatto che “risparmiatori” e usurai ritirino il denaro dal mercato e lo rilascino solo e quando riescono ad ottenere il tributo conosciuto come “interesse” rende del tutto aleatoria qualunque predizione di inflazione o deflazione. Detto altrimenti, la domanda, sostenuta da denaro, gode di un vantaggio indebito sull’offerta, spalleggiata (se è la parola giusta) dai danni del tempo, passaggi di moda, tarli, umidità, funghi, ratti, ladri e via dicendo. Il che riduce la cosiddetta “legge” della domanda e dell’offerta al rango di pia favola. Le crisi ricorrenti hanno perduto qualcosa delle loro antiche severità dal tempo di Bretton Woods (1944) quando Keynes (1883-1946) convinse le banche centrali a sostituire contante “risparmiato” con nuove emissioni dello stesso. Ne è risultata l’inaffidabilità più assoluta di qualsiasi predizione monetaria, sintomo chiarissimo dell’impotenza dei governi per controllare il denaro incettato. Che questo abbondi, o scarseggi, dipende da chi si decide a rigurgitarlo, quando e perché. Ecco perché, come ben osserva Guido Hülsmann del Von Mises Institute,
Se la moneta fosse ancora fatta di metalli preziosi, la situazione sarebbe ancora peggiore, dato che nessun governo può fabbricare oro o argento. C’è di più. La monetizzazione dell’argento, materia prima molto più abbondante dell’oro, dà fastidio ai possessori di quest’ultimo, dato che è molto più difficile controllare due metalli che uno solo. Ecco perché costoro forzarono la demonetizzazione dell’argento lungo il secolo 19°. Ancora una volta, non si trattò di un intervento statale ma plutocratico. Le questioni fondiaria e monetaria, ambedue irrisolte, stanno alla base della lotta di classe, di guerre civili e internazionali, di disoccupazione, assassinî politici,[35] povertà, sottosviluppo, scarsezza di alloggi e mancanza di infrastrutture, concentrazione di fonti di energia nelle mani di pochi, scarsezza nel bel mezzo di prosperità e una pletora di mali che affliggono il mondo inosservati e pertanto incontestati.[36] Lo Stato moderno, impotente succube di Mammona Incapace di sconfiggere sia il potere fondiario che quello monetario, lo Stato impotente si è alleato a questi due. La fiscalità moderna preme sempre di più. Come osserva James Robertson,
La fiscalità moderna ha tutta l’impronta dell’ingiustizia, qualunque sia la caratteristica che si analizzi. Come disse George Bernard Shaw (1856-1950)
Lo Stato moderno deruba i cittadini in cinque maniere. Dogane e dazi sono la versione moderna del barone predone che saccheggiava i mercanti di passaggio. I confini sono infatti il solo luogo dove lo Stato moderno esercita sovranità, dopo aver abdicato a quella sul suolo interno a favore dei terratenenti. L’arte di depredare il mercante di passaggio consiste nel non toglierli tanto da invogliarlo a cambiare strada. Dogana e dazio criminalizzano l’istinto umano di base, cioè il tratto sociale per scambio di beni e servizi. Ed agiscono, come non potrebbe essere più chiaro, da freno potente sullo sviluppo di una economia. Notava Henry George che le derrate passavano molte più settimane nei depositi doganali di quante ne passassero nelle stive delle navi che incrociavano gli oceani. L’aereo ha ridotto drammaticamente i tempi di trasporto, ma solo per far aumentare alle derrate il numero di settimane ferme nei depositi doganali. Per giunta, un esercito di funzionari controlla, autorizza, rifiuta, verifica, blocca ed esercita poteri vari sugli sfortunati che non conoscono i trucchi del mestiere. E un certo numero di doganieri, che si rendono conto del potere discrezionale conferito loro dalla carica, domandano la tangente, così dirottando parte dei frutti del lavoro altrui nelle tasche proprie. Le imposte indirette colpiscono il consumo in tutte le sue forme. “Non olet” sembra dicesse Vespasiano odorando le monete provenienti dall’imposta sugli orinali pubblici.[39] La tassazione indiretta moderna data dall’Inghilterra del 17° secolo, quando i terratenenti al potere, riluttanti a pagare imposte sui terreni, le trasferirono dalle loro proprietà ai beni di consumo. La pratica continua. Basta dare un’occhiata ai prezzi della benzina. La tassa sul reddito colpisce la produzione. La sua introduzione (1909) sta per compire il primo secolo di esistenza. Dato che lo Stato ha il dovere di proteggere la vita e la proprietà dei cittadini, ha il corrispondente diritto di tassare le due cose. Si può sostenere (come chi scrive) che la tassa sul reddito è una tassa sulla sicurezza della persona, controbilanciata quindi dai servizi di difesa, di ordine pubblico e di giustizia. È quindi la meno ingiusta delle imposte moderne. Sarebbe più giusta (e per giunta aumenterebbe le entrate dello Stato) se venisse imposta a percentuale fissa invece che progressiva.[40] L’IVA colpisce le transazioni. Sotto tutti i punti di vista, si tratta della più ingiusta e controproduttiva, per non dire assurda, imposta mai escogitata. E non è neanche nuova. La Spagna aveva la sua IVA nel 16° secolo: si chiamava alcabala. Non durò, perché lo Stato si accorse ben presto che il costo di riscossione superava il gettito, e che l’economia andava in rovina. I burocrati odierni lo sanno, ma per occultare la frode impongono i costi di riscossione a produttori e negozianti; senza pagarli, naturalmente, ma minacciando castighi severissimi nel caso di non ottemperanza. Costringere a lavorare senza pagare lo si è sempre chiamato schiavitù, e che questa tornasse lo predisse Belloc nel 1912 (The Servile State) e Hayek nel 1944 (The Road to Serfdom). La quinta e ultima idea su come riempire le casse dello Stato è la legalizzazione dei giochi d’azzardo. Che questo poi causi un incremento di criminalità organizzata, di bancarotte, divorzi e maltrattamento di minori, con un costo sociale eccedente la riscossione, non ha molta importanza. L’intervento statale, tanto temuto (e combattuto) dalla Scuola economica austriaca, è quello di uno Stato impotente, costretto a girare senza sosta nel circolo vizioso appena descritto. L’avversione austriaca per lo statalismo venne anticipata più di 100 anni fa dall’economista italiano Maffeo Pantaleoni (1857-1924):
Effetti del disordine Si osservi il grafico[42] che segue: La curva A rappresenta la crescita naturale, cioè degli esseri viventi. Codesta crescita dipende dai grandi cicli della natura: acqua, ossigeno, carbonio ecc. Agricoltura e industrie derivate seguono, o dovrebbero seguire, quella curva: crescita rapida seguita da equilibrio statico. La linea retta B rappresenta la crescita industriale. Nella decade 1860-70 la produzione industriale superò per la prima volta quella agricola negli Stati Uniti e nel Regno Unito, seguiti dai paesi oggi chiamati “industrializzati”. La curva C è quella esponenziale dell’interesse composto, spinto inesorabilmente dall’usura, dettata dalla forma di moneta in uso da 4.000 anni, e dovuta alla confusione del mezzo di scambio col mezzo di risparmio. Le quattro decadi 1890-1930 segnarono l’intersecarsi dell’interesse composto con l’agricoltura. Gli effetti sono stati profondi per non dire tragici. Segnalo:
Quando l’esponenziale C interseca la retta B, è l’economia di guerra. Si produce per distruggere, così da mantenere l’occupazione e pagare gli interessi. Nel 1945 Raul Follereau (1903-77)[43] chiese a Roosevelt e a Stalin il denaro corrispondente al costo di un bombardiere, per i suoi lebbrosi. Invano naturalmente. Non si rendeva conto che gli interessi dei due belligeranti erano altrove. Un aereo di guerra abbattuto o comunque precipitato rappresentava migliaia di posti di lavoro per l’industria bellica che aveva salvato l’America dalla Grande Depressione. Codesta pratica è in pieno auge. L’industria di guerra produce, i mercanti di morte vendono (ai cosiddetti “governi” dei paesi sottosviluppati), e i paesi cosiddetti “industrializzati” risolvono, seppure parzialmente, il problema della disoccupazione. Poi qualcuno si accorge che dall’altra parte si fa la fame, che gli affamati camminano centinaia di chilometri in cerca di cibo, sicurezza e istruzione. E ci si torce le mani e si manda loro “aiuti” sotto forma di derrate alimentari e di materiale d’urgenza. E così si risolve (sempre parzialmente) il problema della sovraproduzione agricola nei paesi “sviluppati”. Tutta l’operazione viene diretta, naturalmente, da “esperti” espatriati, che incamerano una parte non disprezzabile degli “aiuti”. È un’altra spintarella all’occupazione, ma a quella dei paesi “sviluppati”. È evidente che la pace, specialmente se duratura, non rappresenta una priorità per chi vive di una tale situazione. Il problema reale rimane l’usura. Fino a quando questa non venga affrontata e sconfitta, non vi saranno programmi e progetti, per quanto ispirati da buona volontà e implementati da buone persone, che possano invertire la marcia. Tutti i paesi cosiddetti “industrializzati” o “sviluppati” hanno raggiunto questa tappa. Che scelgano di usare il materiale bellico per conto proprio, o per venderlo altrove, l’immoralità dell’operazione dovrebbe essere ovvia, ma coloro che intascano i “lauti dividendi” dell’industria di guerra sono comprensibilmente poco propensi a scrutare da vicino gli effetti dei giocattoli di morte, specialmente se non sono maneggiati dai loro figli. Darò un solo esempio: il soldato bambino. Il dodicenne con il Kalashnikov a tracolla è, infatti, “la macchina bellica più efficiente che sia mai stata escogitata”, come dichiarava un militare sudanese. perché?
I nodi vengono al pettine se e quando il dodicenne sopravvive, raggiunge l’età del giudizio... e capisce. Allora ne seguono notti insonni, pianti disperati, incubi, e talvolta anche il suicidio. In ogni caso sarà un traumatizzato per tutta la vita, irritabile e scontroso: un soggetto antisociale. Dovrà rimanere in esilio perpetuo: tutti a casa ne ricordano le atrocità. Ma che glie ne importa agli usurai di tutto ciò? Grazie al bambino soldato gli azionisti di morte avranno goduto “lauti dividendi”. Quali soluzioni? L’Accademia Si dovrebbe avere il diritto di aspettarsi, no? che le università, le facoltà, i professori e le professoresse di ruolo, i prestigiosi libri di testo, e le decine di migliaia di tesi di dottorato, per non parlare della Riksbank che assegna il “Nobel” dell’economia, notassero gli impicci appena descritti, anche con un rapido sguardo. Ma il mondo accademico si muove su un’altra lunghezza d’onda, sospinto da una falsa definizione dell’economia e da varie scuole in contrasto prima con la realtà delle cose e poi l’una con l’altra. Il termine tradizionale “economia politica”, definito come “studio di produzione e di distribuzione di ricchezza”, è stato furtivamente sostituito con quello di “economia” tout-court, definita come “assegnazione di risorse scarseggianti”. Codesta definizione apparentemente innocua nasconde non una ma due trappole. La prima è: “In che senso una risorsa scarseggia?”. La seconda è: “A chi spetta assegnare?”. Nessuna risorsa “scarseggia”. L’ingegno umano è sempre riuscito a trovare, o inventare, surrogati per risorse rese artificialmente scarse dalla cupidigia umana. Il petrolio, per esempio. Fino al 1850 il carburante più usato per l’illuminazione domestica era l’olio di balena. Quell’anno “scarseggiò”, non perché non ve ne fosse, ma perché qualcuno credette di fare il furbo incettandone tutta la produzione e quadruplicandone il prezzo. Al che qualcun altro notò che c’era una robaccia nera e oleosa che si sprigionava dal suolo, e che con un certo trattamento diveniva infiammabile. Il resto è storia, e l’olio di balena una curiosità storica. La faccenda non è finita. La trivellazione a grande profondità, cominciata dai russi con un pozzo di 20.000 metri nella penisola Kola negli anni 1960, ha rivelato che c’è tanto petrolio quanto se ne vuole, sempre che si sia disposti a trivellare a quelle profondità, cioè a costi alti. Per mezzo di codesta tecnica il Vietnam è divenuto paese produttore di petrolio, in barba alle predizioni. Per di più, pozzi che erano stati dichiarati “esauriti” hanno cominciato a riempirsi spontaneamente, da sacche profonde mai sfruttate. Il tutto è sgradita notizia per le multinazionali monopoliste, ma prima o poi, come ben dice J. K. Galbraith, “la saggezza convenzionale viene messa in scacco dall’avanzata degli avvenimenti”. Il termine “assegnazione” insinua che solo gli “esperti”, che sono “al corrente” possono “assegnare”. Il che è vero fino a quando terra e moneta saranno quello che sono. Ma con lo svegliarsi della gente, c’è da sperare presto, l’economia decollerà sulle due ali di Terra e Moneta libere. E la decantata “scarsezza” andrà a finire nel bidone della spazzatura della storia. Il Premio Nobel lo abbiamo già visto. James B. Phelan se la prende con il duo Banca Mondiale/Fondo Monetario Internazionale in questi termini:
Non tutti i premi Nobel di economia hanno la stessa tempra di Stiglitz. Alcuni di costoro perfino credono nelle loro teorie, come Merton e Scholes, i vincitori del 1997. E nel 1998 persero in borsa 1.250 miliardi di dollari. Non di tasca loro, s’intende, ma quelli affidati loro da banchieri centrali di tutto il mondo perché applicassero le teorie che avevano fatto loro vincere il Nobel. Chi tirò fuori i gonzi dalla melma in cui si erano cacciati furono i contribuenti USA attraverso il FED. Bernard Maris dell’Università di Parigi inveiva:
Per gli accademici l’usura non esiste. Quindi andiamo a vedere cosa raccomanda: La tribù La terra appartiene alla comunità. La moneta non è necessaria. In condizioni idilliache perché primitive, o primitive perché idilliache, ciò e vero. Diceva il capo Seattle della tribù Suquamish:
Quando l’idillio finisce in seguito alla crescita demografica, la suddivisione del lavoro rende impossibile codesta visione delle cose. La moneta diviene necessaria, e con essa non tanto il diritto quanto l’obbligo di insediarsi da qualche parte. Il feudalesimo La terra appartiene alla elite, cioè la nobiltà e l’alto clero. Costoro godevano dello ius utendi, ma non dello ius abutendi: i nobili si accollavano i costi di amministrazione e di difesa, e gli ecclesiastici quelli della previdenza sociale: culto religioso, educazione, sanità, orfanotrofi, accoglienza ecc. La rendita del suolo nudo pagava per codesti servizi. In Europa il sistema feudale durò per ben sette secoli. L’inconveniente maggiore era evidentemente la servitù della gleba. Il servo, si noti bene, mancava di libertà politica, ma godeva di una libertà economica invidiabile: lavorava per il signore quattro settimane all’anno, per sé e famiglia 14 settimane, altre 10 per i lussi che si poteva permettere, e godeva di 120 giorni di vacanze (per lo più religiose) all’anno.[47] La politica monetaria feudale soffriva di una mancanza cronica di contante, dato che:
Il capitalismo Con la fine del feudalesimo, il “sacrosanto” titolo di proprietà venne a garantire non solo il diritto di occupazione (ius utendi), ma anche quello di sfruttamento (ius abutendi). I servi divennero affittuari, ma la richiesta sempre crescente e incalzante di canone finì per espellerli dagli appezzamenti che avevano lavorato per secoli. Divennero proletari. Chi li salvò dalla morte per inanizione fu la Rivoluzione Industriale, provvidenzialmente sorta allo stesso tempo degli sfratti massicci.[48] Adam Smith scrisse a quel tempo il già citato The Wealth of Nations. Non è fuori luogo ricordare che al tempo della stesura il nostro godesse di una lauta pensione proveniente dalla rendita del Duca di Buccleugh (Scozia). Sarebbe stato rischioso mordere la mano del benefattore. Gli economisti odierni della scuola liberale non ripetono i pragmatismi di Smith. Menzionano la terra come fattore di produzione di ricchezza al principio dei loro trattati, poi dicono (non scrivono) “abracadabra” e la terra si trasmogrifica[49] in capitale. La Questione Sociale scoppiò virulenta per tutto il 19° secolo, causando una massiccia emigrazione verso nuove terre. Britannici e tedeschi, militarmente forti, andarono ad espropriare gli africani; gli irlandesi e gli italiani, militarmente deboli, andarono a tentar fortuna nelle due Americhe. E Marx poetizzava sui datori di lavoro che sfruttavano i proletari, guardandosi però bene dal menzionare che i primi fossero solo dei sensali tra i salari da miseria dei nullatenenti e i due poteri terratenenza-usura. La situazione reale la descrisse Henry George nel 1887:
Quello che George chiamava “rappresentanti di monopoli non fondiari” è infatti il potere dell’usura, meglio identificato e descritto da Gesell una generazione dopo. È importante notare che il capitalismo intreccia i due monopoli fondiario e monetario più strettamente che qualsiasi altro sistema economico. Al monopolio fondiario sono indissolubilmente legati gli alti tassi di interesse. In regime di recintazione, la terra maldistribuita tra i pochi possessori e i molti nullatenenti diviene il tipo di investimento più redditizio: il rendimento ne viene garantito dalla densità di popolazione e dalle infrastrutture che crescono attorno alle proprietà. Questa è anche la ragione per cui l’alta finanza è nemica dichiarata di agricoltori e di attività agricole. I monopolisti monetari vedono codeste attività come una minaccia alla loro speculazione, e con ragione. Le derrate alimentari sono forma di moneta.[50] L’agricoltura di sussistenza e il baratto sono due dei tre fattori (il terzo è la cambiale) che impediscono all’usura di aumentare le sue richieste più di quanto non lo faccia. Per la stessa ragione la manipolazione finanziaria ha cacciato via milioni di piccoli agricoltori dai loro appezzamenti durante tutto il 20° secolo.[51] Il “titolo di proprietà” non è così innocuo come appare di primo acchito. In Kenya, Africa Orientale, non vi è giorno in cui non appaia sulla stampa un episodio di violenza dovuto ai “title deeds”[52] con concomitante stillicidio di morti e feriti. La dottrina sociale della Chiesa I documenti pontifici sulla Questione Sociale non offrono soluzioni bell’e fatte. Sono dichiarazioni di principio, da servire come punti di riferimento per un’azione effettiva. Quando suggeriscono una soluzione, questa sarà certamente libera da errori dottrinali e morali, ma non necessariamente da quelli economici o politici. La Rerum Novarum (1891) fa il primo punto, citando S. Tommaso:
La proprietà privata, quindi, deve svolgere una funzione sociale oltre a venire incontro alle esigenze del proprietario. La Quadragesimo Anno (1931) fornisce un punto ulteriore:
Però ecco che il rimedio suggerito da Leone XIII è proprio la recintazione:
Ma i salari, insufficienti, non lo consentono. E non per l’avidità del datore di lavoro, ma per il suo farla da sensale coatto tra i lavoratori e i terratenenti/usurai. Per di più, anche se il lavoratore riuscisse a fare quel che il documento pontificio suggerisce, si innescherebbe il processo che, iniziando dalle piccole superfici, ha sempre finito, inesorabilmente, con il portare al latifondo. È verissimo, come afferma Papa Leone nello stesso documento, che “il lavoro ha bisogno di capitale e il capitale di lavoro”. Ma la questione è se questo bisogno reciproco possa, da sé, fare aumentare i salari. Ciò non è accaduto per tutto il 20° secolo: l’aumento di un salario di un certo sindacato o gruppo di sindacati è sempre avvenuto a spese di altri salari, gruppi e sindacati, mai a spese di chi lucra rendite e interessi. La prova – paradossale – di ciò la diede Henry Ford (1869-1947), un non-cattolico. Libero da debiti, Ford potè quintuplicare il salario minimo dei suoi lavoratori, e aumentare le paghe fino al punto di permettere ai suoi uomini di acquistare le auto che producevano. Il fallimento di ogni politica diretta a risolvere la Questione Sociale ha aperto la strada alle corporazioni transnazionali, oggi esercitanti uno sfacciato dominio mondiale con la loro politica di globalizzazione. L’unico documento pontificio moderno circa l’usura fu Vix pervenit di Benedetto XIV (1745), la prima Enciclica in ordine assoluto e anche l’ultima a toccare l’argomento. Per ragioni mai rese esplicite, la Vix Pervenit non viene considerata parte del corpus di Dottrina Sociale. L’ultima risposta in materia data dal 1985. Estelle e Mario Carota, una coppia messicana, nel tentativo di alleviare la crisi da debiti che affliggeva i paesi latino-americani in quel decennio, richiesero al Vaticano una dichiarazione formale sull’usura. La risposta della Congregazione per la Dottrina della Fede fu che la dottrina circa l’usura resta immutata.[56] Il socialismo Tutto il territorio nazionale è proprietà dello Stato. Ne segue che ogni cittadino è un impiegato del medesimo. Codesta soluzione semplicistica è dovuta al presupposto marxista che lo sfruttamento dei lavoratori sia effetto della proprietà privata dei mezzi di produzione. I socialisti di tutti i colori ancora ci credono, dimentichi del fallimento clamoroso dell’esperimento sovietico durato ben 70 anni.
La scuola austriaca La scuola economica cosiddetta “austriaca” aborrisce l’intervento statale, ma continua a sostenere a spada tratta l’equazione terra = capitale, sotto l’incantesimo dell’abracadabra liberale. Per quello che riguarda la questione monetaria la scuola austriaca presume (come del resto fanno tutti) che l’emissione di moneta sia esclusiva responsabilità, nonchè dovere, dello Stato. Jörg Guido Hülsmann, del Von Mises Institute scrive:
Sorprendentemente, perfino il The Economist se la prende con la moneta cartacea:
C’è anche chi non ha mai creduto nel valore di quelle promesse, e meno ancora in quello delle “belle monete d’oro e d’argento”. Gesell dimostrò che solo la moneta cartacea è in grado di tenere il passo ad una economia in crescita, e che il fare assegnamento su metalli preziosi che vanno “trovati” (gefunden, gefunden, gefunden, ironizza il nostro) condanna l’economia a inanizione perpetua e fa di ogni repubblica una società di mendicanti. La dimostrazione è del 1916. Che 90 anni dopo esista gente ancora irretita dall’incantesimo di Creso è a dir poco sconcertante. E che l’argomento di Gesell venga ancora ignorato puzza di losco lontano un miglio. Ma non è tutto: che i signori della scuola austriaca non si rendano conto che l’emissione di moneta è proprio controllata dal cosiddetto “libero mercato” da 200 anni, e che i governi esercitino il signoraggio esclusivamente sugli spiccioli di metallo, è ancora più sconcertante. Che poi si tratti di ignoranza sic et simpliciter, o di connivenza, non sta a me dirlo. Comunque, c’è chi è riuscito a sgattaiolare dalla trappola di Mammona. Andiamo a fargli visita. L’Autonomia Monetaria con moneta convenzionale Nel golfo di S. Malo, 49° 20’ N 2° 20’ W, sorgono dal mare le Isole Normanne: Jersey, Guernsey, Alderney, Sark e alcuni isolotti minori per un totale di 195km2 (= Pantelleria + Eolie, per rendere l’idea). Chiunque le visiti, anche virtualmente in Internet, non può fare a meno di sbalordirsi con le semplici statistiche: 150.000 e più abitanti (contro i 17.000 scarsi delle equivalenti isole siciliane); una densità quindi attorno agli 800/km2, cioè quattro volte quella del Regno Unito; opere pubbliche di prim’ordine, dalle case del governo, alle strade, ai tre aeroporti di Jersey, Guernsey e Alderney, agli impianti di desalinizzazione per l’acqua potabile. Le industrie principali sono la finanza (che la finanza usurpi il nome di industria è osceno, ma questo è un altro discorso), il turismo e l’agricoltura, che vanta ben due razze bovine campioni di fama mondiale per l’alta percentuale di grasso nel latte. Lo sbalordimento continua con lo studiarne la storia e l’ordinamento politico. Le isole non fanno parte né del Regno Unito né dell’Unione Europea. Godono però di una “relazione speciale” con il primo da 900 anni: il Regno Unito bada alla loro difesa, ma il governo degli Stati (sic) delle Isole è autonomo. Le isole dipendono direttamente dalla Corona, però non quella d’Inghilterra, si badi bene; la Regina è “il nostro Duca (non duchessa) di Normandia” dato che gli abitanti sostengono (e non a torto) di aver loro conquistato l’Inghilterra con Guglielmo d’Altavilla nel 1066. Lo sbalordimento sorpassa tutti i limiti nel considerare che le isole non sono neanche solidarie l’una l’altra: Jersey ha un governo e una bandiera; Guernsey ha un altro governo (e un’altra bandiera); da essa dipendono le isole minori, ognuna con regime politico proprio. I titoli sono ancora quelli medioevali di Conestabile, Siniscalco, ecc. Le circoscrizioni sono le Parrocchie (civili, non ecclesiastiche), ognuna con la sua forza di polizia. Gli abitanti si sbeffeggiano a vicenda (v. National Geographic Maggio 1971). In circostanze “normali” una tale disunione porterebbe alla rovina. Cosa fa funzionare le Isole? Una sola cosa: il diritto, conquistato a dura prova dalle banche, di batter moneta. Nel 1815, finite le guerre napoleoniche, Guernsey era in condizioni disastrose. Le strade, fiumi di fango larghe appena 3 metri; il commercio, inesistente; i poveri, dappertutto. Sul debito pubblico di 19.137 sterline gravava un interesse annuale di 2.390. Aumentare le tasse era fuori discussione; chiedere un prestito alle banche sarebbe stato rovinoso. Il comitato che studiò la questione vide il rimedio: emettere banconote di Stato (libere da debito) e titoli, per opere pubbliche e per rilanciare l’economia. Per dieci anni le cose andarono bene; nel 1825 le banche contrattaccarono per sabotare l’esperimento. Prima inondarono le isole con le loro banconote;[59] poi ottennero dalla Corona il ritiro delle banconote degli Stati, e fecero il bello e il cattivo tempo finanziario fino al 1914, come avviene tutt’ora dovunque gli artigli di Mammona si conficcano nelle loro prede. La Grande Guerra le constrinse a rilassare la presa. Approfittando delle restrizioni imposte alle banche dagli eventi bellici, le Isole riconquistarono il diritto di batter moneta e non lo hanno più mollato fino ai nostri giorni.[60] In queste località, quindi, vigono tanto l’istituto del patteggio quanto quello di autonomia monetaria. Le tasse sono irrisorie (8% sul reddito),[61] tanto per l’assenza di debito pubblico quanto per il milione di turisti che annualmente visitano le isole. La storia è ben altra nel Regno Unito, che sta ancora pagando gli interessi contratti per vincere la battaglia di Waterloo; il mercato di Glasgow costò 60.000 sterline nel 1817, e si finì di pagarlo solo nel 1956, quando era già tempo di demolirlo. Henry George e Terra Franca Due cose dovrebbero apparir già chiare:
Il principio di sussidiarietà non è generale. È un caso particolare del più esteso principio (cristiano) dello et-et, che nelle questioni etiche, coinvolgenti cioè la libera volontà umana, sostituisce l’aut-aut caratteristico di altre scienze. La sussidiarietà rende possibile la convergenza di libertà e solidarietà, trascendendole entrambe. Nella questione fondiaria, ciò che ha bisogno di convergere sono l’istituzione della proprietà privata con la sua funzione sociale auspicata dalla Rerum Novarum. Ma principi trascendenti di codesto tipo non sono affatto facili da identificare, dato che non si prestano ad essere trattati dal solo punto di vista logico. Con la logica non si approda a nulla. Bisogna ammettere che la mente umana, in cerca di verità attraverso una concatenazione ordinata di pensiero, si sconcerta davanti alla prospettiva di identificare codesti principi. E non vi è conforto nell’affermare che la logica di un siffatto principio si staglia chiarissima una volta trovato e applicato. Ma non prima. Ecco il perché del cozzo, assolutamente non necessario però storicamente accaduto, tra la dottrina della Rerum Novarum e quella di Henry George. Le due dottrine vennero giudicate contraddittorie, senza però che nessuno si desse la pena di esaminare se la verità dell’una implicasse necessariamente la falsità dell’altra. E viceversa. George aveva proposto che il suolo nudo, escluse le strutture costruitevi su, dovesse venir usato come imponibile fiscale. I frutti del lavoro del terratenente sarebbero così andati a finire nelle tasche dello stesso per il 100%, mentre la rendita del suolo nudo, risultato delle attività economiche della comunità attorno ad esso, sarebbe ritornata alla comunità sotto forma di opere pubbliche e di infrastrutture.[62] Dovrebbe esser chiaro che il suggerimento georgista applica proprio il principio della Rerum Novarum. Le due dottrine sono quindi subcontrarie,[63] cioè ambedue vere. La prova pratica fu la facilità con la quale l’arcivescovo Satolli assolse e riabilitò lo scomunicato Fr Edward McGlynn nel 1892.[64] Satolli chiese a McGlynn di riassumere, quanto più concisamente possibile, i principi del georgismo, per farli esaminare da un comitato di esperti dal quale era stato scrupolosamente escluso ogni amico del sacerdote scomunicato. Il comitato (Catholic University of America, Washington), espresse all’unanimità l’opinione che il georgismo non contiene alcunchè contro la fede o la morale. In seguito, il comitato chiese a McGlynn se accettava la dottrina della Rerum Novarum. Costui lesse il documento e ne firmò l’accettazione senza esitare. Conoscendo la sua tempra, non c’è dubbio che avrebbe rifiutato di firmare se non fosse stato d’accordo anche solo su un punto minore. Il georgismo fu così ufficiosamente condannato e ufficiosamente riabilitato. Il che non vuol dire che la cosiddetta “imposta unica” di Henry George sia l’unica maniera che permetta alla proprietà privata di assolvere la sua funzione sociale. Ve ne sono altre. Quel che conta è il principio: trasferendo l’imponibile dal valore aggiunto da chi lavora a quello sottratto dal suolo come risorsa naturale, ogni cosa cade al posto giusto:
Silvio Gesell e la Moneta Franca Le scorte di denaro a cui si è accennato qua e là non sono gruzzoli di poco conto. A parte la bolla finanziaria già descritta, Microsoft vanta una scorta di ben 56 miliardi di dollari in contanti, abbastanza per sopravvivere, come asseriscono loro, a un anno di vendite-zero. Il magnate britannico Lord Weinstock (1925-2002)
Se “diversi” (several) vuol dire ± 7, costui avrebbe potuto pagare di tasca propria il costo del traforo sotto la Manica al preventivo originale. Incette di contante di proporzioni come quelle descritte sono perfettamente legali, ma immorali, come, diciamo, succhiare l’olio lubrificante da un motore per farlo grippare. Il genio che mise a nudo la contraddizione pratica della forma di moneta convenzionale e ne propose il rimedio si chiamava Silvio Gesell (1862-1930), mercante tedesco trasferitosi in Argentina negli anni 1890. Costui propose un doppio divorzio: primo, quello della moneta dai metalli preziosi; secondo, quello dell’unità monetaria dall’oggetto che la rappresenta. Il primo divorzio ha già avuto luogo, in due tappe: il 25 settembre 1931 il Premier britannico MacDonald, con le lagrime agli occhi, annunziava che il Regno Unito avrebbe rinunciato al sistema aureo per sempre. Era stata la Grande Guerra a forzare il passo. Tutto l’oro del mondo non sarebbe bastato a finanziarla che per poche settimane, altro che i quattro anni di carneficina che durò. Seguirono, uno dopo l’altro, tutti i paesi, man mano che si accorgevano che la carta poteva benissimo svolgere la funzione di portavalori. Il sistema aureo cadde ovunque eccetto che negli U.S.A, dove Creso tenne banco fino al 1971. Quell’anno De Gaulle pretese oro di Fort Knox in cambio della montagna di pezzi da 100 dollari che gli U.S.A. avevano rifilato alla Francia come “moneta di riserva”.[66] Il 15 agosto 1971 il Presidente Nixon buttava la spugna. Non c’era oro sufficiente, e il sistema aureo passò nel dimenticatoio della storia.[67] Gesell fu discepolo di Proudhon (1809-65), il primo ad accorgersi che la moneta, lungi dall’aprire le porte del mercato, faceva da “chiavistello che le sbarra”. Proudhon aveva visto il problema, sbagliandone però la soluzione. Con domanda e offerta in perenne squilibrio, aveva proposto di far salire l’offerta al livello della domanda, aumentando la produzione di capitale fino a farne sparire l’interesse. Gesell mise allo scoperto il punto debole dell’argomentazione di Proudhon: l’offerta soffre i capricci del tempo, la moneta no. È possibile però farglieli soffrire, facendo così scendere la domanda a livello dell’offerta. A differenza di Tobin puntò sulle incette piuttosto che sulle transazioni. Come? Emettendo moneta deperibile, cioè con data di emissione e di scadenza, da mantenere in circolazione pagando un’imposta sul valore nominale dello 0,1% per settimana, o 5,2% annuale.[68] La chiamò Freigeld (moneta franca) cioè libera da usura, e pertanto da inflazione e deflazione. Diamo un’occhiata al successo, sebbene di breve durata, della Moneta Franca. La Prova del Fuoco Il primo esperimento ebbe luogo a Schwanenkirchen, in Germania, nel 1930. Herr Hebecker, padrone di una miniera di carbone, la manteneva aperta in piena depressione economica emettendo buoni Wära come mezzo di scambio. I suoi minatori ricevevano il 90% della paga in Wära, e chi accettava i Wära poteva convertirli in carbone. Ogni buono Wära subiva la svalutazione geselliana [69] programmata per favorirne la circolazione rapida. La cosa funzionò tanto bene da attirare l’attenzione di Mammona nelle vesti del Cancelliere Heinrich Brüning (1885-1970). Costui non perdette tempo a cassare Schwanenkirchen e a passare decreti-legge di emergenza, tutt’oggi in forza, contro l’emissione di qualsiasi moneta non ufficiale.[70] Protagonista della seconda storia è Michael Unterguggenberger (1884-1936), borgomastro di Wörgl, cittadina nodo ferroviario del Tirolo austriaco. Nel 1932 la moneta scarseggiava, le industrie chiudevano e infuriava la disoccupazione. I 1.500 disoccupati di Wörgl (su 4.000 abitanti) inutilmente accorrevano al borgomastro per aiuto. Costui aveva letto Gesell durante la semipovertà delle crisi del 1907-08 e 1912-14, durante le quali aveva contratto la tubercolosi che lo avrebbe portato alla tomba a 52 anni. Ma conosceva il rimedio, e si mise all’opera. Dopo un paziente lavoro di avvicinamento e di convinzione presso i piccoli impresari, negozianti e professionisti di Wörgl, il 5 luglio proclamava:
Il municipio emise i suoi Bestätigter Arbeitswerte (Certificati di Lavoro) valorati alla pari con lo Schilling ufficiale, ma ogni certificato per 1, 5 e 10 Schilling, pur mantenendo un potere d’acquisto stabile, scadeva dopo un mese dall’emissione a meno di non rinnovarne la validità con un francobollo del valore dell’1% sul nominale, acquistabile in municipio. Questo, da parte sua, accettava i certificati come pagamento di imposte. Non vi era alcun obbligo di accettarli. Le alternative erano:
Il municipio ne fece stampare un totale di 32.000 unità, ma in pratica ne emise meno di un quarto. La circolazione raggiunse una media di 5.300 scellini, cioè un irrisorio due scellini o meno a persona, che però procuravano lavoro e prosperità al circondario di Wörgl più di quanto lo avessero fatto i 150 scellini/persona della Banca Nazionale. Come aveva predetto Gesell, l’importante era la velocità di circolazione: scambiandosi circa 500 volte in 14 mesi, contro le 6-8 volte della moneta ufficiale, quei 5.300 scellini fecero circolare beni e servizi per ben due milioni e mezzo nello stesso periodo. Il municipio, con le casse continuamente riempite da un lato e svuotate dall’altro, costruì un ponte sul fiume Inn, asfaltò quattro strade, rinnovò le fognature e le installazioni elettriche, e costruì perfino un trampolino di salto con sci. Per avere un’idea del potere di acquisto, lo stipendio del borgomastro era di 1.800 scellini mensili. Al principio alcuni ridevano, altri gridavano alla frode o sospettavano contraffazione. Ma i prezzi non aumentavano, la prosperità cresceva e le tasse venivano pagate puntualmente (perfino in anticipo) e immediatamente ri-investite in lavori e servizi pubblici. I ghigni si trasformarono ben presto in espressioni di stupore e i lazzi in voglia di imitazione. Ai primi del 1933 circa 300.000 cittadini della provincia di Kufstein erano lì lì per adottarne l’esperimento. Frattanto Wörgl era diventata centro di pellegrinaggio di macroeconomisti europei e americani. Tutti volevano vedere “il miracolo” della prosperità locale che sfidava la miseria e la disoccupazione globali. Andavano per imparare? Non si direbbe, data la spessa coltre di silenzio su Gesell nelle facoltà di economia. Mammona non dormiva. Unterguggenberger si era astenuto dal chiamare i certificati “moneta” dato che a farlo sarebbe incorso nelle ire della Banca Nazionale. Il 19 agosto del 1932 il Dott. Rintelen, per conto del Governo, riceveva una delegazione capitanata dal borgomastro. Dovette ammettere che la Banca Nazionale aveva ridotto l’emissione di moneta da una media di 1.067 milioni di scellini nel 1928 a una di 872 nel 1933. Dovette anche ammettere che i certificati facevano senso e che non c’erano ragioni valide per interromperne l’esperimento. Mammona però aveva i suoi “scienziati” alla Banca Nazionale, intenti a “provare” che l’esperimento doveva essere verboten, proibito. Eccone le ragioni “scientifiche”:
La proibizione entrò in forza il 15 settembre 1933. Wörgl appellò. Il caso raggiunse la Corte Suprema, che fedele a Mammona cassò l’appello e mise fine all’esperimento. Tornarono la disoccupazione, la miseria e la fame. Nelle Bierhallen bavaresi cominciava a farsi notare Adolf Hitler, oscuro immigrante austriaco. È impossibile affermare – o negare – che il secondo conflitto mondiale sarebbe stato evitato dando retta a Gesell. Il fatto è che furono i voti dei disoccupati a portare Hitler al potere. Con la Moneta Franca il divorzio tra l’unità monetaria e l’oggetto che la rappresenta è sanzionato. La moneta diviene puro mezzo di scambio senza funzione alcuna di portavalori. Chi vuole risparmiare lo può fare con qualsiasi altra cosa che non sia quello che per un motore è il lubrificante. Una tale riforma monetaria, come quella fondiaria già trattata, corrisponde agli stessi requisiti:
Nessun governo europeo (eccetto le Isole del Canale) è stato mai abbastanza forte da sfidare e vincere il potere finanziario. E nessun governo al mondo ha mai tentato di istituzionalizzare la Moneta Franca in barba allo stesso potere. Chi potrebbe? Andiamo per ordine. Lo status quo Nel sistema vigente le banche commerciali emettono credito, la banca centrale il contante e lo Stato gli spiccioli. Il credito risponde del 95% circa di movimenti monetari di un paese; contante e spiccioli del rimanente 5%. Abbiamo visto che quel che le banche amano chiamare “prestiti” sono in realtà permessi per batter moneta non circolante. Quello che poi richiedono per codesti “prestiti” è l’ammontare della somma originale più gli interessi che, non essendo creati come è il capitale, devono necessariamente venire dalla produzione di beni/servizi reali. Si tratta quindi di un sistema aperto, in cui il flusso di denaro dai prestatari alle banche eccede quello contrario dalle banche ai prestatari. E chi va in bancarotta (necessariamente come abbiamo visto) cede a queste beni reali, prodotti da lavoro altrettanto reale. Detto altrimenti, le banche succhiano ricchezza reale dalla società in cambio di pezzi di carta. Il flusso rimanente va per buona parte allo Stato e per l’altra ai cittadini. Nel caso (raro) in cui il debitore riesca a pagare il capitale, questo viene obliterato con la stessa facilità con cui era stato creato all’emissione. Ecco perché le banche sono riluttanti a farsi ripagare i cosiddetti “prestiti”. Preferiscono che si continui a pagare interesse anche quando l’ammontare di questo eccede, e di gran lunga, la somma iniziale. Se tutti si accorgessero dell’inganno, il sistema crollerebbe. Ma data la scarsissima informazione in materia la gente continua allegramente a farsi tosare tanto dal potere finanziario quanto da quello terriero. La moneta convenzionale statale Il sistema in auge nelle Isole del Canale è chiuso: Lo Stato emette moneta e lo Stato la riceve in pagamento di imposte. Ma si tratta di moneta che conserva la contraddizione mezzo di scambio/portavalori, per cui il “risparmio” sottrae circolante e il credito supplisce la scarsezza artificiale di contante. Il passo è nella direzione giusta, ma la gamba è ancora a mezz’aria. I Wära di Schwanenkirchen e i certificati di Wörgl Oltre al successo spettacolare di quello che fu la Moneta Franca nei due paesini germanici, si noti che:
A questo punto c’è da chiedersi: vale la pena ripetere, possibilmente migliorandolo, l’esempio di un privato e di un municipio che tanto successo ebbero sette decenni fa? Se sì, chi e come potrebbe attuarlo? Una risposta è che le linee aeree seguono quell’esempio da anni. I buoni “frequent flyer” acquistano posti sugli aerei, ma circolano anche negli aeroporti per l’acquisto di rinfreschi, riviste, libri e cianfrusaglie varie. Lo stesso fanno alcuni supermercati. Offrono buoni d’acquisto per una certa somma ivi spesa, e li redimono in mercanzie che loro stessi vendono. Nel frattempo i buoni sono in grado di circolare tra i clienti. In ambedue i casi si tratta di sistemi chiusi al 100%. In ambedue i casi i buoni scadono dopo un certo tempo, quindi si è incentivati a spenderli. L’unica osservazione è che i supermercati non producono ricchezza: la distribuiscono. Aumentando la circolazione dei buoni aumentano le vendite. È ora di fare il punto. Moneta franca e democrazia Da quanto suesposto emerge chiaro il principio: chiunque produce ricchezza è in grado di monetizzarla. Non solo un municipio, ma anche una compagnia di trasporti (aerea o non, come visto sopra), un cementificio, una azienda agricola, una compagnia di elettricità, un ospedale, una catena alberghiera ecc. sono in grado di emettere buoni acquisto denominati non in unità ufficiali ma in unità naturali di quel che producono: il kilogrammo di granaglie, il passeggero/chilometro o la tonnellata/chilometro, il kilowattora, il posto letto ecc. Ma nessuna di queste unità garantisce costanza nel tempo. La scuola invece sì. Vediamo come. La rivoluzione del 1982 Pochi si rendono ancora conto della svolta storica che rappresentò il 1982 nel mondo delle comunicazioni e in quello delle relazioni sociali. Quell’anno decisivo vide nascere due cose: il computer personale e la moneta comunitaria.[71] Qui si presta attenzione solo a quest’ultima. La sua invenzione può essere considerata tanto importante, se non di più, di quella di Gutenberg. Capitale umano alla riscossa In quasi tutti i paesi l’educazione è l’ambiente di maggior tratto sociale. Spesso assorbe il grosso della spesa pubblica. Tutti ci siamo passati, e alcuni di noi ci sono rimasti: o da maestri, o da genitori, o da ambedue le cose. Chi controlla questo ambiente sociale originario? La teoria dice che devono essere i genitori, come produttori e primi educatori di capitale umano. La pratica dice tutt’altro: chi controlla il denaro (contante + credito) controlla anche l’educazione. Ma le cose stanno cambiando. Le comunicazioni sempre più rapide, sulle ali dell’invenzione del 1982, hanno già la possibilità di dare pieni poteri ai genitori per prendere in mano l’educazione dei loro figli, così facendo a meno dell’indebita intromissione dello Stato e di altri poteri più o meno occulti.[72] Come? Emettendo il loro mezzo di scambio, vincolato al valore aggiunto (al capitale umano rappresentato dai loro ragazzi) dai ragazzi stessi e dai loro insegnanti. Dal Sistema Aureo all’ora di insegnamento Le due sconfitte dell’usura a 40 anni l’una dall’altra (1931 e 1971) non sono state definitive. Il problema rimane. Nonostante l’accettazione universale di carta moneta come mezzo di pagamento, gli interessi finanziari sono in aperto conflitto con quelli dei produttori di ricchezza reale. L’alta finanza vuole denaro instabile da usare come “portavalori” per le sue speculazioni; produttori e commercianti lo vogliono stabile da usare come mezzo di scambio per le loro previsioni. L’ultima cosa che speculatori, usurai e compagnia desiderano, è un’unità di riferimento fissa che permetta di stabilizzare i prezzi e così fare previsioni economiche affidabili. Ma un’unità stabile, dopo tutto, esiste da sempre. Dall’antico Egitto, se vogliamo, ma anche da prima. In un mondo a basso livello di tecnologia, però, nessuno l’aveva mai notata. Con l’alta tecnologia di oggi, e ora con Internet, è perfettamente possibile adottare l’ora di insegnamento scolastico come unità monetaria. Associazioni di genitori possono benissimo farlo, sempre che ne siano consci. Qualsiasi scuola, in qualsiasi parte del mondo, con 30 ore settimanali di insegnamento per 40 settimane all’anno, aggiunge valore al capitale umano per 1.200 ore/anno per classe. Si tratta di una somma immensa, mai monetizzata solo perché passata inosservata. Per meglio dire, la sua monetizzazione è avvenuta a casaccio e del tutto insufficientemente, dato che è sempre dipesa da capricci di banchieri, uomini politici, associazioni educative e commercianti di libri di testo e di articoli di cancelleria. Ma ora i genitori possono prendere le redini. Come, si legga sotto. Precedenti Senza tornare agli esperimenti di 70 anni fa, cominciamo con il notare che già esistono, sparse in tutto il mondo, circa 30.000 comunità che hanno fatto rivivere le economie locali, minacciate dalla cosiddetta “economia di scala” tanto industriale quanto commerciale. Ci sono riuscite, bene o meno bene, emettendo circolante proprio. Molte fanno uso dell’ora di lavoro come unità di scambio, ma senza precisarne il tipo. Se tutte si mettessero d’accordo su una stessa unità di riferimento, una tale rete di comunità presenterebbe un fronte poderoso che potrebbe servire da base per una economia completamente libera da usura. Il decollo di una tale economia verrebbe impedito solo dalla scarsità di manodopera. Basandosi sull’esperienza dei 4.000 abitanti di Wörgl, prendiamo quella cifra come massa critica. In termini scolastici, ciò vorrebbe dire una comunità con otto scuole da 500 alunni ciascuna. Caratteristiche generali Il nome da dare all’unità “buono-scuola” è arbitrario (sarebbe prudente non usare termini finanziari). Che comunità diverse diano nomi diversi non ha importanza, sempre che il potere d’acquisto sia l’ora di insegnamento. Tutte le monete che la adottassero diverrebbero intercambiabili. Le caratteristiche principali sarebbero:
Caratteristiche fisiche Il buono, emesso in tagli da 1, 5 e 10 unità, deve:
Caratteristiche di circolazione
Caratteristiche di stampa Queste sarebbero da convenire secondo i bisogni della comunità. Caratteristiche di emissione L’ostacolo più formidabile è senza dubbio quello psicologico, cioè riuscire a convincere tutta una comunità, o buona parte di essa, ad accettare BS in pagamento di beni e servizi. Quanto più piccola è una comunità, tanto più facile dovrebbe risultare il lavoro di avvicinamento e convinzione. Ma appena il tentativo venisse coronato da successo, come avvenne a Wörgl nel 1932, la pratica si spargerebbe a macchia d’olio ad altre comunità. Dato che i BS non sostituiscono la moneta ufficiale, ma circolano assieme ad essa, quella di accettarli o no sarebbe una scelta del tutto libera. Chi li rifiutasse guadagnerebbe tanto quanto prima. Chi li accettasse vedrebbe il suo potere d’acquisto crescere in proporzione ai BS accettati. In ordine di avvicinamento e preparazione, prima verrebbe l’associazione emittente; seconda, il personale scolastico; e terza gli operatori economici della comunità. Lo scopo del BS è di far muovere beni e servizi circolando, cioè chiudendo ripetutamente il circolo scuole-personale scolastico-operatori economici-scuole. Se un municipio, o un’alleanza di municipi, prendesse l’iniziativa come la prese Unterguggenberger 70 anni fa, la circolazione diventerebbe municipio-personale civico-operatori economici-municipio, il quale potrebbe fornire la comunità di amenità e servizi pubblici di prim’ordine. Il principio che governa il BS è semplice: chiunque lavora viene pagato subito e in contanti. Non ci sarebbe bisogno di aspettare “la fine del mese” (o della settimana, come in Gran Bretagna). L’ammontare della paga, dipenderebbe come sempre dal gioco tra domanda e offerta. È improbabile che un operatore economico richieda un prezzo eccessivo per le sue prestazioni, dato che “risparmiare” BS vorrebbe dire incorrere in sicura perdita, come risparmiare verdure. I buoni BS potrebbero pagare – e perché no? – anche due prestazioni fino adesso imposte gratis con la violenza o con l’inganno: la maternità e i compiti di scuola. Non vi è ragione alcuna per chiedere alle madri di espletare gratis la funzione sociale più importante e più dura che esista. Che la scuola (o il municipio) paghino per la produzione e la prima educazione di un capitale umano che dopo pochi anni contribuirebbe al benessere scolastico (e sociale) ha un perfetto senso economico da qualsiasi punto di vista. Non è questione di forzare le donne ad avere figli e portarli su. È questione di dar loro una scelta che oggi non hanno. Non vi è neanche ragione per instillare una mentalità da schiavi nella mente dei giovani scolari. Non suggerisco che si paghi loro uno stipendio fisso, ma che si ricompensi il lavoro ben fatto in proporzione a ricchezza di contenuto, presentazione, puntualità ecc. Sarei disposto a scommettere che una tale misura migliorerebbe il livello di educazione più di quanto non lo hanno fatto le “riforme” più o meno fraudolente dall’Unità d’Italia a questa parte. La Repubblica Italiana potrebbe veramente dire di essere “fondata sul lavoro” come dice la Costituzione, senza dovere aggiungere “coatto” come dice la realtà. Il ruolo della Chiesa Tutto quel che si dovrebbe chiedere alla Chiesa sarebbe di accettare BS come obolo, dentro o fuori le funzioni liturgiche, non invece di ma insieme a, denaro corrente. Qualora l’obolo ricevuto eccedesse i suoi bisogni, la Chiesa avrebbe tutto da guadagnare e niente da perdere. Le possibilità di assistenza sociale verrebbero limitate solamente dalla scarsezza di personale. Il ruolo del Governo dello Stato Come ben disse Frédéric Bastiat (1801-1850), la sola richiesta da fare allo Stato è quella che fece Diogene ad Alessandro: togliti dai piedi che mi fai ombra. Lo Stato, vedendo l’economia decollare senza il suo “aiuto” e la disoccupazione sparire come neve al sole senza impiego alcuno di denaro pubblico, farebbe benissimo a starsene da parte, vedendo (se lo vedesse) che i BS riescono a fare in questione di mesi quello che politicastri di tutte le persuasioni non sono riusciti a fare in 200 anni. Potrebbe anche aiutare, questa volta davvero, in due maniere:
Se poi lo Stato volesse sbarazzarsi dei cosiddetti “extracomunitari” non avrebbe che suggerire ai governi dei paesi da cui costoro provengono di adottare l’istituto della Moneta Franca. Ritornerebbero tutti a gambe levate (dall’entusiasmo, non dalla paura). Lo Stato potrebbe, però, e forse lo farà, allearsi con Mammona per distruggere l’esperimento. In questo caso ricordiamo quello che stava avvenendo nell’area di Kufstein poco prima che Mammona cassasse gli sforzi di Unterguggenberger: 300.000 cittadini erano lí lí per organizzarsi ad emettere Certificati di Lavoro, ossia Moneta Franca. Mammona l’ebbe vinta per un pelo: a ritardare di un solo mese, il governo austriaco avrebbe dovuto imprigionare chissà quante migliaia di cittadini invece di prendersela con un uomo e i suoi consiglieri municipali come fece a Wörgl. La lezione è che nel momento in cui l’esperimento raggiunge una massa critica, né Mammona né i suoi lacché potranno fare un bel niente. Un futuro BS La monetizzazione di capitale umano, qui proposta, va molto al di là del mettere al volante dell’economia i creatori e gli educatori di quel capitale. Comporta uno spostamento di paradigma di visione copernicana, e non solo per l’educazione, ma anche per l’economia nel suo insieme. Visualizzare lo spostamento è difficile, dato che una economia BS renderebbe la maggior parte dei termini economici obsoleti o in soprannumero. Il risparmio, per esempio, sarebbe ancora possibile, ma non sotto il proverbiale materasso o l’ugualmente proverbiale salvadanaio. Sarebbe preferibile risparmiare in beni duraturi o beni di consumo non deperibili, o prestando i BS a un interesse dello 0%. Il prestito di denaro, che oggi favorisce l’usura da parte di pochi a spese dei più, diverrebbe universale, favorendo la solidarietà, l’amicizia e la coscienza sociale. Prestandoli, i BS mantengono il potere d’acquisto; risparmiandoli, lo perdono. A nessuno converrebbe non restituire un prestito alla scadenza. Per cui un’economia basata sul dare, e favorente la solidarietà, sostituirebbe un’economia basata sul ricevere e lo sfruttare, e promovente l’egoismo. Nel sistema oggi vigente, risparmiare nelle tasche altrui suona orripilante; nel sistema BS diverrebbe pratica comune. Il termine “capitale” non potrebbe più venir applicato al denaro. Il capitale primario sarebbe quello umano, il che incoraggerebbe le famiglie numerose e scoraggerebbe, quando non eliminerebbe, pratiche antieconomiche come l’aborto e la contraccezione. Il costo di qualsiasi opera, privata o pubblica, non verrebbe più misurato in unità monetarie, ma in ore lavorative/persona. Somme modeste, ma che circolano rapide, pagherebbero per qualsiasi opera pubblica di qualsiasi dimensione. Sarebbe solo questione di tempo. Dieci anni fa tutto questo era utopia pura e semplice. Oggi tutto questo è alla portata dei produttori e degli educatori di ciò che più conta: il capitale umano. Silvano Borruso ___________________________________________________________________________________________ [1] Si tratta di una frode in tono minore: di Nobel codesto premio ha solo il nome. Non viene concesso dal Comitato dell’omonima istituzione, ma dalla Riksbank svedese. Come ciò avvenga non mi è dato saperlo. silvano.borruso@gmail.com (edizioni Lilliput-on-line: http://digilander.libero.it/paolocoluccia) |
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23/03/2008 : signet@work : sandro pascucci : www.signoraggio.com v.0.5 28/03/2008 : signet@work : sandro pascucci : www.signoraggio.com v.1.0 [signoraggio_leggi_economiche_etica_e_paradossi.html] |