Attualità di Orwell
Si è tornati a leggere su libri e giornali con crescente
frequenza di George Orwell e del suo romanzo 1984 .
Si tratta di un argomento di indubbia attualità: l'autore
immagina infatti una tirannia basata sul controllo e la manipolazione
dell'informazione e sulla più rigida e spietata repressione
di ogni forma di libertà politica e intellettuale. Chi
sgarra commette la colpa delle colpe, lo «psicoreato»,
che provoca una scomunica sociale con conseguenze tremende, definitive.
«Lo psicoreato non comporta la morte, esso è la morte».
Il personaggio della vicenda si chiama Winston Smith, «l'ultimo
uomo in Europa» , come Orwell in un primo momento voleva
intitolare il libro. Smith lavora al Ministero della Verità,
dove è incaricato di «riscrivere», secondo
le esigenze del momento, le notizie che riguardano il passato,
bruciare i documenti originali e sostituirli con quelli «rielaborati».
Smith sapeva, ma forse era l'unico rimasto ad avere una memoria
storica e voglia di conoscere. «Libertà è la
libertà di dire che due più due fa quattro» ,
continuava a ripetersi. «Non era vero, come sostenevano
le cronache, che il Partito aveva inventato gli aeroplani. Lui
gli aeroplani se li ricordava fin dalla più remota infanzia,
ma non si poteva dimostrare nulla. Non esistevano più le
prove».
Si sentiva tragicamente solo. L'ultimo uomo ad avere qualche brandello
di conoscenza e, soprattutto, qualche interesse a conservarla.
«Ma questa conoscenza, dove si trovava? Solo all'interno
della sua coscienza, che in ogni caso sarebbe stata presto annientata.
E se tutti quanti accettavano la menzogna imposta dal Partito,
se tutti i documenti raccontavano la stessa favola, ecco che la
menzogna diventava un fatto storico, quindi vera. “Chi controlla
il passato” diceva lo slogan del Partito “controlla
il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato”».
Il Ministero della Verità si occupava anche di redigere
la «neolingua», che consisteva in una progressiva
semplificazione del linguaggio: un numero sempre più ridotto
di vocaboli e una costruzione sempre più essenziale della
fraseologia. Un lavoro incessante di forbici: vocabolari con sempre
meno pagine. Più la neolingua si faceva scarna, più facilmente
le comunicazioni – sia pubbliche che private – erano
controllabili. E non solo: «Lo scopo principale a cui tende
la neolingua è quello di restringere al massimo la sfera
d'azione del pensiero. Alla fine renderemo lo psicoreato letteralmente
impossibile, perché non ci saranno più parole con
cui poterlo esprimere».
La popolazione era divisa in due. Da una parte la maggioranza,
i «prolet», verso la quale non vi erano preoccupazioni
di sorta: nessuno di loro si interessava alla politica o ambiva
a carriere di potere; lavoravano, si distraevano con la pornografia
che gli veniva ammannita in abbondanza, si divertivano, procreavano,
si ubriacavano; una massa informe e spersonalizzata. I prolet
non avrebbero mai potuto ribellarsi.
Poi c'era l'ampia classe dirigente che si occupava di tutto; una
moltitudine di burocrati e funzionari estremamente inquadrata
e controllata. Attraverso una capillare rete di televisori ricetrasmittenti
ogni frase era intercettata, ogni movimento sorvegliato, mentre
incessantemente erano divulgati i comunicati del Partito. Un indottrinamento
continuativo e martellante.
Winston Smith, per scrivere qualche riga su un diario, era costretto
a rannicchiarsi in un angolo dietro allo schermo: l'unico punto
della casa dove l'occhio del Grande Fratello non arrivava.
Come Orwell, con sorprendente intuizione, abbia previsto il nostro
tempo ce lo confermano l'uso di un vocabolario oggi sempre più scarno
e internazionalizzato, le diffuse intercettazioni telefoniche,
dei fax, delle e-mail, l'opportunità di utilizzare i computer
come microfoni ambientali, e ancora la possibilità di individuare
un cellulare, anche se spento, la facilità con la quale
si possono ricostruire attività e spostamenti di un individuo
attraverso il Bancomat, le carte di credito e il Telepass.
Oggi anche in Europa, come già da parecchi anni in America, è guardato
con sospetto, quasi fosse un malvivente, chi si ostina a pagare
in contanti. Evidentemente si subodora un eccessivo attaccamento
alla riservatezza e una preoccupante insofferenza verso i controlli;
un embrione di psicoreato.
In 1984 solo la scenografia, rispetto ad oggi, è sbagliata.
Quando Orwell scrisse il romanzo si profilavano nel mondo due
tirannie: quella sovietica e quella finanziario-capitalista; lo
scrittore immaginò l'affermazione della prima e quindi
inserì la sua storia nel grigiore di un regime sovietizzato.
Nella realtà ha poi vinto l'altra tirannia e, invece dei
grigi abiti tutti uguali, c'è lo sgargiante abbigliamento
consumista; invece dello scadente «gin Vittoria» ci
sono gli spinelli, le pasticche e la cocaina. Per il resto tutto
come previsto. Solo qualche discordanza di ordine estetico, assolutamente
ininfluente.
Tutto come previsto: siamo alla tirannia del Grande Fratello,
dell'informazione controllata e preconfezionata; siamo nel tempo
dello psicoreato e della totale omologazione.
C'è un altro elemento di preveggenza nell'opera dello scrittore
inglese. L'Oceania, il regno del Grande Fratello – la cui
capitale è Londra – è in perenne stato di
guerra. Per lo più una guerra lontana, tanto che spesso
Smith si domanda se si tratti di un reale conflitto o solo di
una artificiosa falsa informazione utile a conservare in soggezione
la popolazione, chiederle sacrifici, farle vivere un solidale
sentimento di odio.
Ma ci sono anche le bombe-razzo che cadono vicino e fanno danni
e vittime, e che finiscono per fugare nella maggioranza ogni possibile
dubbio sull'esistenza del nemico. Come oggi. Ma «le bombe-razzo
che cadevano tutti i giorni su Londra erano probabilmente sganciate
dallo stesso governo dell'Oceania, per mantenere la gente nella
paura».
E, come oggi, ogni diritto viene sacrificato sull'altare della
lotta al terrorismo.
Sicuramente nessuno poteva immaginare nel 1948, quando Eric Blair – vero
nome dello scrittore da tutti conosciuto con lo pseudonimo di
George Orwell – scriveva la sua opera di fantapolitica,
che nel 2005 un altro Blair – Tony, primo ministro inglese – avrebbe
affermato, sull'onda mediatica orchestrata sul terrorismo internazionale – come
già fatto da Bush negli USA –, che occorre emendare
la carta dei diritti umani; che i giudici possono ordinare arresti
anche in assenza di prove; che vanno istituiti tribunali speciali
e che questi devono essere tenuti segreti; che è opportuno
limitare i diritti legali della difesa; che il termine della detenzione
preventiva deve essere portato dagli attuali 14 giorni ai tre
mesi. E altre cosucce del genere. Sembra proprio di ascoltare
il Grande Fratello orwelliano e di vederne, sul teleschermo, gli
occhi minacciosi e penetranti.
Un'ulteriore curiosa coincidenza: il funzionario chiamato dal
primo ministro inglese a realizzare tecnicamente questa sequela
di provvedimenti liberticidi, si chiama anche lui Blair, Ian,
attuale capo della polizia britannica.
Ma torniamo alla sostanza del libro: «La consapevolezza
di essere in guerra, e quindi in pericolo, fa sì che la
concentrazione di tutto il potere nelle mani di una piccola casta
sembri l'unica e inevitabile condizione per poter sopravvivere».
E ancora: «Non importa che la guerra sia combattuta per
davvero e, poiché una vittoria definitiva è impossibile,
non importa nemmeno se la guerra vada bene o male; serve solo
che uno stato di belligeranza persista».
Sembra proprio di sentir parlare di Osama Bin Laden e del mullah
Omar, i mitici e introvabili nemici del Grande Fratello democratico,
delle fantomatiche armi di distruzione di massa di Saddam, dell'individuazione
di sempre nuove Nazioni canaglia contro cui combattere.
* * *
Sia nell'opera di Orwell che nel tempo in cui viviamo incombe
dunque, denso di significati ed evocatore di tragiche conseguenze,
lo psicoreato.
Psicoreato non è sinonimo di «reato di opinione». è parecchio
di più e, soprattutto, è qualcosa di molto diverso.
Il reato d'opinione è istituito per legge, nero su bianco,
codificando quelli che sono i valori, i simboli, le colonne portanti
di un regime politico, e stabilendo che il vilipendio pubblico
di queste cose non è consentito. Si tratta di una partita
a carte scoperte: da una parte il potere e le sue regole pubblicamente
dichiarate, dall'altra i potenziali oppositori con le loro opinioni.
Una partita spesso dura, fortemente limitativa della libertà e
quindi difficile da approvare, ma che si gioca ancora nell'àmbito
di un chiaro confronto politico. Prevedendo quel tipo di reato
non si nega infatti la legittimità di condividere le idee
proibite o di pensare liberamente, si vieta di farlo in pubblico,
cioè di propagandarlo.
Tra reato d'opinione e psicoreato c'è insomma un grande
salto concettuale: per il primo il soggetto è l'opinione
individuale o di parte, e quindi la libertà come condizione
politica contingente, per il secondo il soggetto è una
verità che si vorrebbe assoluta e quindi la libertà come
valore. Si passa cioè dal politico al religioso. E si tratta
di una religione che procede solo per dogmi, che peraltro sono
sempre mutevoli, a capriccio delle convenienze del potere. E si
tratta, per di più, di una religione che non ha nulla di
sacro.
Per comportarsi bene oggi occorre essere politically correct ,
ma cosa questo significhi con esattezza non è scritto da
nessuna parte. Lo psicoreato non prevede nessuna codificazione
di principi, di valori, di simboli; è qualcosa di estremamente
generico, si riferisce esclusivamente allo status di omologazione
al Potere: quello della Democrazia, quello della Globalizzazione,
quello della Finanza internazionale, quello delle Grandi Banche,
quello dei Padroni del mondo. Un potere che non ama autodefinirsi
o qualificarsi ideologicamente, ma che si esprime esclusivamente
con il controllo dell'informazione e che si realizza nel semplice
esercizio del comando. Omologazione infatti non vuol dire accettare
di condividere questo e quello, vuol dire essere disposti ad approvare
qualsiasi cosa, anche se assurda o palesemente falsa. L'omologato
digerisce tutto.
Il fascismo, dopo soli diciotto anni di regime, pubblicò un
monumentale Dizionario di politica , stampato dalla Treccani in
quattro volumoni nei quali, voce per voce, era affrontato qualsiasi
argomento e ogni risvolto ideologico. Per la redazione di tale
opera si scomodarono letterati, filosofi, professori universitari,
economisti, storici e la penna dello stesso Mussolini.
Oggi invece si parla solo di «democrazia», genericamente,
senza specificarne alcun aspetto né ideologico, né politico,
né tecnico.
D'altra parte, chi comanda il mondo, l'economia, e determina la
sorte delle nazioni e dei popoli, non è mai eletto da nessuno
e di nessuno chiede il consenso; per lo più opera e decide
lontano dai riflettori, all'interno di palazzoni di cui i cittadini
spesso ignorano anche l'esistenza.
Ci si deve dunque omologare, accettare per buona tutta l'informazione
che viene ammannita e non porsi domande. Altrimenti si cade nello
psicoreato. E la pena è l'uscita dalla realtà. Cioè vedersi
impedita la possibilità di comunicare con la pubblica opinione,
quindi di informare. Nessuna ospitalità sui giornali a
tiratura nazionale, nessun passaggio nei salotti televisivi e,
soprattutto, nessuna pubblicità indiretta. Ai non omologati,
agli apoti – come li chiamava Giuseppe Prezzolini (1) – non
bisogna rispondere; con essi non è opportuno polemizzare.
Non si deve sapere nemmeno che essi esistono.
In America, dove un incredibile numero di libri sono stati editi
per smantellare, pezzo per pezzo, la versione ufficiale degli
avvenimenti dell'11 settembre 2001, nessuno si è dato cura
di rispondere, di precisare e, nemmeno, di smentire. Nonostante
sia sufficiente andare su certi siti Internet o in una libreria
mediamente fornita, per avere la certezza che in quel giorno le
cose non sono andate come pretende l'ufficialità, il controllo
della grande informazione è bastato a convincere la pubblica
opinione che l'artefice di quegli attentati è stato proprio
quell'Osama Bin Laden che ci viene presentato come il capo del
terrorismo internazionale.
Se in America – e anche altrove – si parla a qualcuno
del jet set dei contestatori, dei revisionisti, per risposta si
ottiene un sorrisetto beffardo e un'espressione di scherno: «ah,
i grassy knoller!» , e si cambia subito discorso.
Grassy knoll (2) è la traduzione di «collina erbosa».
L'espressione è stata coniata dopo l'assassinio di Kennedy
a Dallas. Un folto numero di testimoni affermò che gli
spari che uccisero il presidente non erano venuti dalle finestre
del magazzino della biblioteca – dov'era Oswald – ma
dalla collina erbosa che costeggiava la strada. L'inchiesta che
seguì non tenne conto di queste testimonianze e confezionò una
verità tutta incentrata su Oswald, che peraltro da lì a
pochi giorni venne messo a tacere per sempre.
Grassy knoller , cioè gli impiccioni, i fantasiosi, i ficcanaso,
quelli che vogliono sapere troppe cose.
Per chi poi riesce a sgattaiolare tra i paletti del Grande Fratello
e procurarsi un uditorio, è già pronta la contromossa.
Daniel Pipes, consigliere di Bush per il Medio Oriente, ha elaborato
una teoria secondo la quale i complottisti – coloro che,
in presenza di qualcosa di sospetto, si documentano e vogliono
vederci chiaro – sono quelli che hanno portato al potere
Hitler e Stalin. Insomma, i complottisti non sarebbero gente per
bene, ed è buona cosa starne lontani e non dar loro mai
credito.
Con il controllo dei media si riesce ad imporre qualsiasi notizia.
La realtà non è più il vissuto, ma il racconto
che se ne fa. Lo spettacolo della notizia prevale sull'informazione
di ciò che effettivamente è avvenuto. Come fosse
una rappresentazione teatrale o cinematografica, con la sostanziale
differenza che chi va a teatro o al cinema sa di assistere ad
una finzione scenica, chi invece legge un giornale o guarda la
televisione finisce per convincersi che è tutto vero.
Un esempio: nello scorso aprile su una spiaggia del Kent la polizia
ferma un individuo che non risponde alle domande. Viene condotto
in un ospedale psichiatrico, ma anche ai medici non risponde.
Gli viene dato un foglio e una matita: «scrivi il tuo nome» ,
ma lui niente. Dopo ulteriori insistenze comincia a tracciare
dei segni: disegna un pianoforte a coda. Allora viene fatto sedere
di fronte a un piano e – i media ci informano – lo
smemorato comincia a suonare. Quattro ore di «ottima musica
classica» di fronte a un pubblico di medici e infermiere,
stupiti ed estasiati.
Pagine e pagine di articoli, ampi servizi sui telegiornali. Da
fabulazione a fabulazione, si fanno ipotesi tra le più romanzesche
e stravaganti. Un grande musicista colto da amnesia? Un professore
d'orchestra, un solista, un compositore? Per tutti lo smemorato
diviene Piano Man .
Dopo quattro mesi il tipo parla ed esce fuori la verità,
riportata solo da veloci trafiletti su qualche giornale e subito
archiviata perché stavolta la notizia non fa spettacolo.
Si tratta di un omosessuale tedesco con problemi di esaurimento
nervoso, in fuga dalla famiglia e chissà da cos'altro.
E dice anche che non sa assolutamente suonare il pianoforte. Che
ha disegnato lo strumento perché era la prima cosa che
gli era venuta in mente. Allora tutti ammettono che non ha mai
suonato «ottima musica classica» , ma ha solo pestato
sui tasti, in maniera disordinata e sempre le stesse note.
Dunque – è questa considerazione che fa diventare
istruttivo questo aneddoto di poco conto – per la maggioranza,
alla quale certamente sono sfuggite le veloci smentite, quella
di Piano Man rimane una storia misteriosa e romantica. Per tutti
costoro la realtà è destinata a rimanere quella – di
pura invenzione – del musicista smemorato chiuso in un manicomio
del Kent e non quella – autentica – dell'omosessuale
riportato ad agosto in Baviera.
Con il controllo dei media qualsiasi avvenimento, anche il più fantasioso
ed improbabile, può essere rappresentato e fatto passare
per vero. Nell'esempio citato il danno è irrilevante; inesistente.
Ma in altri casi le conseguenze sono state e possono essere incalcolabili:
si pensi alla storia delle armi fotografate dai satelliti in Iraq;
si pensi alla vicenda delle Torri Gemelle di New York; si pensi
all'Olocausto...
Un ulteriore esempio: il Capo del Servizio Stampa e Informazione
del Ministero degli Affari Esteri, Pasquale Terracciano, lo scorso
5 ottobre ha scritto a tutti i direttori delle testate giornalistiche
e radiotelevisive italiane: «Nell'imminenza del referendum
che avrà luogo in Iraq il 15 ottobre prossimo, desidero
attirare la Sua attenzione sulla perdurante pericolosità dell'attuale
situazione nella capitale irachena, destinata verosimilmente ad
acuirsi in prossimità della consultazione referendaria.
Ribadisco al contempo il parere del Ministero degli Esteri, peraltro
più volte espresso in passato, assolutamente negativo sull'opportunità e
sull'avvedutezza di un invio di giornalisti dall'Italia a Baghdad
in questa situazione».
Dunque, in Iraq testimoni non ce ne devono essere.
è così che dopo lo svolgimento delle elezioni ci
viene detto che l'afflusso alle urne è stato tra il 60
e il 70%. Una importante notizia: il Grande Fratello democratico
esulta per questa nuova vittoria contro il terrorismo e la resistenza
irachena. Nonostante l'occupazione militare, nonostante la guerra
civile, nonostante le stragi delle bombe, nonostante un'economia
completamente distrutta, nonostante le difficoltà di circolazione,
le distanze, i deserti, i ponti crollati e la grande paura, quasi
tutti gli iracheni, a loro rischio e pericolo, si sono recati
a votare. Con una percentuale di partecipazione che non si riscontra
nemmeno negli USA e forse neppure da noi. D'altronde i giornalisti,
se avessero potuto essere presenti, per le strade di Baghdad,
dopo i seggi elettorali, girato l'angolo, avrebbero certamente
potuto incontrare anche Cappuccetto Rosso, Cenerentola e Babbo
Natale!
* * *
Winston Smith, il personaggio del romanzo di Orwell, cade nello
psicoreato: rifiuta l'omologazione, pretende una vita privata
libera, con la donna che ama, sia pure in una stanza sporca e
disagevole, ma senza controlli; e arriva persino a praticare la
ribellione. Viene scoperto, internato, torturato, omologato a
forza. Per quell'«ultimo uomo in Europa» la fine è disperata
e senza ritorno.
Anche per noi l'atmosfera risulta irrespirabile e il destino sembra
ammantarsi in modo irreversibile di tragiche oscurità.
Ma, nonostante tutto, conserviamo un'istintiva fiducia nella rinascita
dei nostri popoli, dei nostri valori, della nostra Europa. Non
foss'altro che per gli errori altrui. Il Grande Fratello e le
forze che lo sorreggono sono tutt'altro che infallibili.
Ma intanto che fare? Si è ormai spenta anche tra i più ottimisti
e pervicaci la speranza di vedere la nascita di una forza realmente
alternativa che, direttamente collegata col nostro mondo di valori,
possa ottenere una sua agibilità e una sua visibilità.
Quei pochi che continuano ad insistere in questi fallimentari
progetti hanno evidentemente scelto – coscientemente o meno
poco importa – di votarsi all'inutilità e al masochismo.
Certamente nella vita anche questo può accadere, ma non
ha mai una rilevanza politica.
Gli uomini liberi oggi sessantenni, quelli che nascevano quando
finiva la seconda guerra mondiale – occorre dirlo con chiarezza – rappresentano
la mancata classe dirigente dell'alternativa. Forse per colpa
degli eventi storici e di quelli economici, o per colpa del nostro
cronico sentirci figli di una sconfitta, fatto sta che il ruolo
che continuiamo a ricoprire sembra proprio – come qualcuno
ha argutamente e tristemente scritto – condannato al supplizio
di Sisifo. Il figlio di Eolo costretto in eterno a spingere fin
sulla cima di un monte un macigno destinato a rotolare nuovamente
a valle.
E, inoltre, le generazioni giovani appaiono tragicamente omologate,
indifese, smarrite e impotenti. Noi avevamo almeno potuto sentire
l'odore di un mondo di valori diverso. Ne avevamo conosciuti,
pur se massacrati e storditi, i reduci. I giovani di oggi non
hanno avuto nemmeno questo.
E allora che fare? Come poter giustificare questa nostra ostinata
certezza nella rinascita dell'uomo europeo?
Winston Smith, prima di crollare, dice al suo torturatore: «Non
so come, e neanche m'importa, ma non riuscirete nel vostro intento.
Qualcosa vi sconfiggerà. La vita vi sconfiggerà». «Io
so che fallirete. C'è qualcosa nell'universo... non so,
uno spirito, un principio... che voi non riuscirete mai a dominare...
Lo spirito dell'Uomo».
Conserviamo la nostra fiducia perché «due più due
fa quattro» , perché un vento salutare, capace di
spazzare le nere nuvole che sovrastano la nostra storia, dovrà necessariamente
arrivare. Anche se ora, in questa persistente calma piatta, può sembrare
impossibile.
E quello sarà, finalmente, il tempo nel quale ogni frase
scritta per rendere noti i fatti realmente accaduti, ogni parola
dedicata a trasmettere l'essenza di un valore, il significato
di un'identità, l'importanza di un'appartenenza, brilleranno
improvvisamente di una vivida luce; saranno le pepite di una nuova
era di civiltà.
Ecco dunque cosa fare. Perché i giovani di domani possano
trasformarsi, con successo, in cercatori d'oro, occorre che noi
oggi l'oro lo prepariamo. Occorre testimoniare, ma anche stilare
analisi lungimiranti. Bisogna informare, documentarsi e diffondere
idee, anche se sembra che oggi solo in pochissimi siano disposti
ad ascoltare o a leggere. Anche se i più sembrano paralizzati
dall'incombenza dello psicoreato. Anche se può apparire
troppo faticoso e frustrante...
Questo, e non altri, è il compito che ci spetta. E spetta
proprio a noi, i non omologati, gli apoti, i grassy knoller ,
gli orgogliosi e testardi psicorei. Gli uomini liberi.
Mario Consoli
(1) Apota sta per «chi non la beve». Il termine cominciò a
circolare quando Giuseppe Prezzolini scrisse il Manifesto degli
apoti.
(2) cfr. Maurizio Blondet, Israele, USA, il terrorismo islamico
, Effedieffe edizioni, 2005, pag. 21. |